Quantcast
Channel: ventilab
Viewing all 140 articles
Browse latest View live

La PEEP nella ARDS: tabelline o compliance?

$
0
0

bart-simpson-tabellineLa scelta della PEEP (Positive End-Expiratory Pressure) nella ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome) è stabilmente, da decenni, uno degli argomenti “caldi” quando si parla di ventilazione meccanica.

Oggi voleve condividere qualche riflessione sulla scelta della PEEP nei pazienti con ARDS.

Negli anni, si sono fatti strada, tra gli altri, due differenti approcci:
1) la scelta della PEEP guidata dalla PaO2;
2) la scelta della PEEP guidata dalla compliance dell’apparato respiratorio.

fio2_peep_table

La PEEP con  la PaO2 come obiettivo.

La scelta della PEEP guidata dalla PaO2 è quella che vedo fare più spesso nella pratica clinica. Ed è, di fatto, quella che è utilizzata anche nei grandi trial sulla ARDS, standardiazzata in tabelline come quella riprodotta a fianco (1). L’utilizzo di questa tabellina è semplice: l’obiettivo è ottenere una PaO2 tra 55 e 80 mmHg, per fare questo si utilizza un’accoppiata predefinita di FIO2 e PEEP come riportata nella tabellina. Se la PaO2 diventa superiore a 80 mmHg, si scala verso accoppiate FIO2/PEEP più basse, se la PaO2 diventa minore di 55 mmHg si va progressivamente verso livelli di FIO2/PEEP più alti. Un compito da bambino di terza elementare…

Che fondamento scientifico ha l’utilizzo di questa tabellina? Nessuno. E’ una scelta arbitraria, senza alcun razionale fisiopatologico alcuna evidenza che ne supporti l’efficacia. Penso quindi possa avere lo stesso valore della scelta empirica di PEEP e dellaFIO2che viene spesso fatta.

LA PEEP con la compliance come obiettivo.

Alcuni studi fondamentali sulla ventilazione protetiva hanno confrontato l’effetto della PEEP scelta sulla PaO2 oppure sul punto di flesso inferiore della curva di compliance (cioè la relazione statica pressione-volume) dell’apparato respiratorio,  (più avanti mi spiego meglio e vedrai che è una cosa in realtà semplicissima) (2-4). Valutando complessivamente l’effetto della ventilazione protettiva (basso volume corrente + PEEP sopra il punto di flesso) rispetto alla ventilazione “convenzionale” (alto volume corrente + PEEP sull’ossigenazione), i tre studi messi insieme hanno ottenuto una riduzione assoluta della mortalità del 25%. Un risultato molto migliore rispetto alla riduzione del 9% ottenuta con la sola riduzione del volume corrente a parità di PEEP scelta con la tabellina (1). Quindi un pesante indizio che una scelta della PEEP guardando la compliance è più efficace rispetto alla scelta della PEEP guardando alla PaO2.

Lo scorso mese è stato pubblicato uno studio che mette a confronto (a parità di volume corrente) le due strategie di scelta della PEEP (5): tabellina FIO2/PEEP o la ricerca della miglior (cioè più elevata) compliance. I risultati sono molto interessanti: scegliere la PEEP cercando la miglior compliance riduce la durata delle disfunzioni d’organo e si associa ad una riduzione della mortalità del 18% (quest’ultimo dato non raggiunge la significatività statistica perchè nello studio sono stati arruolati solo 70 pazienti).

Dobbiamo essere consapevoli che possiamo tranquillamente considerare la stessa cosa scegliere la PEEP sul punto di flesso inferiore e scegliere la PEEP per avere la compliance più elevata. Su questo argomento ci sarebbero moltissime considerazioni fisiopatologiche da fare, ma per necessità di brevità le lascio alle risposte ad eventuali commenti.

Se è vero che due indizi fanno una prova, mi sembra di poter concludere che, allo stato attuale delle conoscenze, sia poco prudente utilizzare la PaO2 come criterio di valutazione della PEEP nella ARDS. Al contrario la prudenza vorrebbe, sia per il razionale fisiopatologico che per le evidenze cliniche,  che la PEEP fosse scelta valutando la compliance dell’apparato respiratorio.

La procedura più semplice per scegliere la PEEP con la miglior compliance.

Esistono molti approcci per cercare la PEEP che si associa alla miglior compliance dell’apparato respiratorio o che sia sopra il punto di flesso inferiore della curva di compliance. A mio parere il metodo utilizzato nello studio della Pintado (5), vecchio di almeno 35 anni (6), è il più semplice di tutti, lo consiglio a tutti coloro che non hanno una particolare familiarità con la meccanica respiratoria e vogliono contemporaneamente iniziare a scegliere una PEEP intelligente ed utile al paziente con ARDS. Personalmente preferisco altri approcci, ma per iniziare questo va benissimo. Eccolo in breve.

La compliance (C) è il rapporto tra la variazione (d) di volume (V) e la variazione di pressione (P):  C = dV/dP. Tradotto in maniera semplice nel nostro apparato respiratorio, è il rapporto tra il volume corrente e la pressione elastica (cioè la differenza di pressione tra la pausa di fine inspirazione e la pausa di fine espirazione) (per una descrizione del modo corretto di misurarla vedi il post del 10/04/2011).

In altre parole, la compliance aumenta (cioè l’apparato respiratorio diventa più facilmente distensibile) quando, a parità di volume corrente, si rileva una minore pressione elastica (o driving pressure). Quindi quello che dobbiamo fare è, a volume corrente costante, provare diverse PEEP e scegliere quella che determina la minor pressione elastica.

Facciamo un esempio. Se ho una paziente con ARDS il cui peso ideale è 55 kg, sceglierò inizialmente un volume corrente di circa 350 ml (cioè 6 ml/kg di peso ideale). A questo punto inizio a ventilarla con 5 cmH2O di PEEP e (con paziente passiva alla ventilazione) misuro la pressione di plateau (con l’occlusione di fine inspirazione, Pplat nella figura qui sotto) e la PEEP totale (con l’occlusione di fine espirazione, auto-PEEP nella figura qui sotto).

occlusions

Ipotizziamo di avere una pressione di plateau di 23 cmH2O ed una PEEP totale di 6 cmH2O: la pressione elastica è 17 cmH2O (=23-6). Questo significa che 23 cmH2O sono necessari per ottenere il volume corrente di 350 ml. A questo punto aumento la PEEP a 7 cmH2O e rilevo 24 e 8 cmH2O di pressione di plateau e PEEP totale = 16 cmH2O di pressione elastica. Aumentando di 2 cmH2O alla volta la PEEP, vedo che la pressione elastica diventa 15 cmH2O a 9 di PEEP, 13 cmH2O a 11 di PEEP, 11 cmH2O a 13 di PEEP, 11 cmH2O a 15 di PEEP, 12 cmH2O a 17 di PEEP, 14 cmH2O a 19 di PEEP. A 13 e 15 cmH2O di PEEP ho la minor pressione elastica, quindi questi valori di PEEP si associano alla miglior compliance: la PEEP è scelta! Personalmente sceglierei 15 cmH2O (2 cmH2O al di sopra della minor PEEP che ottimizza la compliance) se non avessi pressioni di plateau elevate o altri segni di stress o problemi emodinamici. Nello studio della Pintado veniva scelta invece quella con la minor pressione di plateau(5): ragionevole anche questo criterio di scelta.

Esistono talora pazienti in cui la compliance non si modifica a diverse PEEP: in questi casi (non frequentissimi) direi di farci guidare dalla protezione dallo stress e dall’ossigenazione.

Anche se non sei un esperto di meccanica respiratoria. prova ad utilizzare questo metodo nel prossimo paziente con ARDS: vedrai che riuscirai a trovare la best PEEP in 10 minuti con qualsiasi ventilatore. Se poi ci prendi gusto, si aprirà un mondo meraviglioso dinnanzi a te…

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia:

1) ARDS Network. Ventilation with lower tidal volumes as compared with traditional for acute lung injury and the acute respiratory distress sindrome. N Engl J Med 2000, 342:1301-8

2) Amato MB et al. Effect of a protective-ventilation strategy on mortality in the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 1998; 338:347-54

3) Ranieri VM et al. Effect of mechanical ventilation on inflammatory mediators in patients with acute respiratory distress syndrome: a randomized controlled trial. JAMA 1999; 282:54-61

4) Villar J at al. A high positive end-expiratory pressure, low tidal volume ventilatory strategy improves outcome in persistent acute respiratory distress syndrome: A randomized, controlled trial. Crit Care Med 2006; 34:1311-8

5) Pintado MC et al. Individualized PEEP setting in subjects with ARDS: A randomized controlled pilot study. Respir Care 2013 ;58:1416-23

6) Suter PM et al. Effect of tidal volume and positive end-expiratory pressure on compliance during mechanical ventilation. Chest 1978; 73:158-62


Pressione di picco delle vie aeree e rapporto I:E: quando la realtà può ingannarci.

$
0
0

ObelixSaludaLa ventilazione meccanica in anestesia ci offre talora difficoltà e spunti interessanti. Oggi ho il piacere di condividere con gli amici di ventilab un caso che mi è stato inviato da Chiara. E’ un concentrato di difficoltà: la ventilazione meccanica durante chirurgia laparoscopica  in posizione di Trendelenburg in una paziente obesa. Suggerisco di continuare leggere questo post anche chi non si occupa di anestesia, perchè i problemi che Chiara ha incontrato e le strategie per gestirli appropriatamente sono di interesse generale per tutti coloro che si occupano di ventilazione meccanica.

Ecco il caso di Chiara: “Ho seguito un’anestesia generale in una paziente di 24 anni ma di quasi 100 Kg per 150 cm, Mallampati IV, collo, mammelle e addome voluminosi : habitus “batraciano”; superata la difficoltà ventilatoria all’induzione, l’intubazione tracheale non è stata difficoltosa. Inizio la ventilazione in volume controllato con PEEP 5 –> 7  cmH20 e un volume corrente di circa 600 ml per 14 atti /minuto; saturazione buona, ETCO2 39-40 mmHg e pressioni di picco intorno a 40 cmH20 in Trendelemburg e pneumoperitoneo con pressione media delle vie aeree di 12-13 mmHg; ho osservato però un volume corrente espirato inferiore di 200 ml rispetto a quanto erogato e ho provato a variare il rapporto I:E  che da 1:2 ho corretto come 1,5:1; il risultato è stato un netto miglioramento del volume corrente (600ml erogati e circa 600 ml espirati), una riduzione della ETCOa 35 mmHg ed una lieve riduzione delle pressioni di picco a 37 cmH20; nessun problema al risveglio, dopo 50 minuti di Trendelemburg ; premetto che si trattava di chirurgia pelvica.  A prescindere dal singolo caso, la scelta di variare il rapporto I:E , trattandosi di una paziente con un quadro “restrittivo” può ritenersi valida? Grazie.

Grazie a te Chiara per lo spunto e per avere accettato di farlo discutere su ventilab.

Il problema.

Chiara aveva impostato 600 ml di volume corrente con la ventilazione a volume controllato ma la sua paziente riceveva in realtà 400 ml di volume corrente (ricordo che il volume corrente espiratorio è quello che di norma dobbiamo considerare come volume realmente erogato, indipendentemente da quello impostato). Durante la ventilazione a volume controllato (in assenza di perdite dal circuito) il volume corrente può non essere ottenuto per un solo motivo: la pressione di picco raggiunge il limite massimo consentito nel corso dell’inspirazione. Quindi il ventilatore “protegge” il paziente interrompendo l’insufflazione nel momento in cui la pressione nelle vie aeree diventa superiore al limite prestabilito. Chiara ci dice in effetti che la pressione di picco era 40 cmH2O, un valore a cui spesso si imposta il limite di pressione di insufflazione.

Effetto della variazione del rapporto I:E.

In questo caso si è deciso di aumentare il tempo inspiratorio ed abbreviare il tempo espiratorio  modificando il rapporto inspirazione/espirazione (I:E) da 1:2 a 1.5:1. La frequenza respiratoria era 14/min, quindi ogni ciclo respiratorio durava circa 4.3 secondi (=60/frequenza respiratoria). Quando il rapporto I:E era 1:2, l’inspirazione occupava il 33% del ciclo respiratorio e quindi circa 1.4 secondi ed il restante tempo (circa 2.9 secondi) era lasciato all’espirazione. Impostando un rapporto I:E di 1.5:1, significa che l’inspirazione occupa il 60% del ciclo respiratorio, quindi in questo caso circa 2.6 secondi ed l’espirazione si riduce a 1.7 secondi. Come può questo ridurre le pressioni di picco a 37 cmH2O ed ottenere la completa erogazione dei 600 ml di volume corrente?

pres_flowIl segreto è nella riduzione della pressione resistiva (vedi post del 05/12/2011): il flusso inspiratorio (data dal rapporto tra volume corrente e tempo inspiratorio) passa da circa 430 ml/s (= 600 ml/1.4 s) a circa 230 ml/s (=600 ml/ 2.6 s). Se il flusso inspiratorio si riduce quasi del 50%, la pressione resistiva (= flusso x Resistenza dell’apparato respiratorio) si riduce molto di più, visto che la relazione tra le due è esponenziale (vedi figura a fianco). Quindi se si riduce la pressione resistiva, si riduce anche la pressione di picco, della quale la pressione resistiva è una componente (vedi post del 24/06/2011).

Così facendo abbiamo però ridotto la pressione di picco, ma aumentato la pressione di plateau, cioè quella parte di pressione delle vie aeree che si scarica sui polmoni. Infatti ricordiamo che la pressione di plateau è la somma di pressione elastica e PEEP totale, come possiamo vedere nella figura qui sotto:

pplat26

La pressione elastica è data dal volume corrente per l’elastanza. Immaginando che l’elastanza non si sia modificata, l’aumento del volume corrente del 50 % (da 400 a 600 ml effettivi) avrà determinato un aumento della pressione elastica del 50%.

La PEEP totale (somma di PEEP + PEEP intrinseca) è poi molto probabile che sia aumentata, visto che abbiamo ridotto drasticamente il tempo espiratorio (da 2.9 a 1.7 secondi) e contemporaneamente aumentato il volume corrente.

Quindi il risultato del cambio del I:E non ha certamente migliorato la protezione dei polmoni, pur avendo dato l’illusione di farlo. Anzi potrebbe averli esposti a qualche rischio in più.

Una possibile soluzione alternativa.

Prima di tutto, ripensiamo all’impostazione della ventilazione. La signora, ancorchè obesa, era di bassa statura. Il volume corrente andrebbe deciso sulla base del peso ideale e non di quello effettivo (vedi post del 18/12/2011). Se fai due calcoli, il peso ideale della signora sarebbe circa 45 kg (!). Forse un volume corrente di 350-400 ml (circa 8 ml/kg) poteva essere già sufficiente, provvedendo evidentemente ad associare una buona PEEP (nei gravi obesi si potrebbe iniziare con 10 cmH2O, emodinamica permettendo), con una frequenza respiratoria sufficiente ad avere una dignitosa eliminazione della CO2 (per quanto possa essere contronatura quando facciamo gli anestesisti, ricordiamo che un po’ di ipercapnia acuta non fa male, anzi potrebbe fare bene).

Secondariamente diamo un’occhiata alla pressioni di plateau (quella che arriva nei polmoni), trascurando la pressione di picco. Nei ventilatori da anestesia spesso non possiamo fare la manovra di occlusione di fine inspirazione. E’ però un’ottima abitudine inserire una breve pausa di fine inspirazione nell’impostazione della ventilazione a volume controllato. Avremo il monitoraggio continuo di una pressione di plateau che sarà forse di un paio di cmH2O più alta della pressione di plateau misurata a 3 secondi, ma che consiglio di utilizzare come come soglia da non superare durante la ventilazione: si avvicina alla pressione alveolare delle unità polmonari a bassa costante di tempo (presto dedicherò un post alla costante di tempo, qui non ho lo spazio di approfondire l’argomento). Se la pressione di plateau “va bene” (è cioè inferiore a 30 cmH2O, per dare retta all’opinione comune), non farei nulla anche in presenza di elevate pressioni di picco e non avrei alcun problema ad aumentare il limite della pressione massima delle vie aeree se necessario.

In casi come quello descritto in questo post, se necessario sarei propenso ad accettare anche una pressione di plateau un po’ superiore a 30 cmH2O se non ci fossero di segni di rilevante iperinflazione dinamica. Ci possiamo aspettare che una obesa in Trendelenburg con pneumoperitoneo possa avere pressioni addominali e pleuriche elevate. Quindi la pressione transpolmonare e lo stress dovrebbero essere comunque normali anche con pressione di plateau un po’ più alta di quanto normalmente raccomandate (vedi post del 24/06/2011).

Conclusioni.

Possiamo concludere che, in tutte le condizioni in cui facciamo ventilazione meccanica controllata, dovremmo:

1) stabilire un volume corrente appropriato rispetto al peso ideale (per le corporature standard massimo 500 ml nei maschi e 400 ml nelle femmine);

2) regolare la frequenza respiratoria per mantenere una PaCO2ragionevole” (anche 50 mmHg potrebbero andare benissimo);

3) favorire l’espirazione, quindi utilizzando I:E non troppi alti (misurando se possibile la PEEP intrinseca);

4) monitorare la pressione di plateau (anche su plateau molto brevi) e stare tranquilli se questa è inferiore 30 cmH2O. Se in queste condizioni la pressione di picco è alta, non lasciamoci influenzare, alziamo il limite di pressione massima delle vie aeree;

5) nei pazienti con “molta pancia” (obesi, gravide, pneumoperitoneo, posizione di Trendelenburg) se necessario accettiamo una pressione di plateau anche superiore a 30 cmH2O, a patto che il volume corrente sia ragionevolmente basso e non vi sia una rilevante autoPEEP.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

 

La posizione seduta nei pazienti obesi: effetti su flow limitation, PEEP intrinseca e pressione di plateau.

$
0
0

the-buddha-of-happinessLa posizione seduta (rispetto a quella supina) modifica flow limitation, PEEP intrinseca e pressione di plateau durante la ventilazione meccanica dei pazienti obesi: questo è il risultato principale di uno studio pubblicato questo mese su Critical Care Medicine (1) che oggi vorrei condividere con gli amici di ventilab.

Nello studio è stato valutato l’effetto del cambio di posizione, da supino a seduto, sulla meccanica respiratoria in un 15 pazienti obesi (BMI > 35) sottoposti a ventilazione meccanica controllata. Vediamo i rilievi principali e cerchiamo di capire come possiamo sfruttarli nella pratica clinica.

Un primo dato da sottolineare tutti i pazienti obesi dello studio avevano flow limitation quando erano supini. Ricordiamo che la flow limitation è l’impossibilità di aumentare il flusso espiratorio (a parità di volume polmonare) durante l’espirazione forzata rispetto all’espirazione passiva. In altre parole, non si riesce ad aumentare la velocità con cui l’aria esce dalle nostre vie aeree nemmeno cercando di soffiare più forte rispetto ad un ‘espirazione normale. Il nonno che non riesce a spegnere le candeline sulla torta di compleanno, anche mettendocela tutta, probabilmente ha flow limitation.

La flow limitation è abbastanza facile da diagnosticare nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica grazie alla manovra di compressione manuale dell’addome (per un approfondimento rimando al post del 4 giugno 2012).

La flow limitation è una causa importante di autoPEEP (o PEEP intrinseca come più spesso viene definita). Infatti i pazienti obesi dello studio avevano una autoPEEP di 10 cmH2O (per semplicità riporto i valori mediani del campione dello studio) in posizione supina senza PEEP esterna. Questa autoPEEP, insieme al volume corrente,  contribuisce alla pressione di plateau, che nei pazienti dello studio era di 22 cmH2O in posizione supina.

Riassumiamo: 22 cmH2O di pressione di plateau, 10 cmH2O dei quali determinati dall’autoPEEP ed i rimanenti 12 cmH2O dal volume corrente (che nello studio era circa 8 ml/kg di peso ideale, circa 400 ml).

Quando, a parità di ventilazione, i pazienti obesi erano messi in posizione seduta, l’autoPEEP si riduceva a 1 cmH2O e la pressione di plateau 16 cmH2O. E la flow limitation si riduceva di entità, scomparendo addirittura in 8 dei 15 pazienti.

In questo studio la posizione seduta era ottenuta alzando lo schienale a 70° per ottenere la “poltrona cardiologica”, nella quale la schiena del paziente viene tenuta diritta ed il sedere è appoggiato posteriormente contro il letto. Inoltre le gambe erano tenute leggermente aperte per evitare la compressione dell’addome. Nell’immagine qui sotto puoi vedere bene come venivano tenuti i pazienti.

obese_sitting

Dobbiamo notare che gli stessi vantaggi della posizione seduta sopra descritta non sono ottenuti con il decubito a 30° che spesso adottiamo in Terapia Intensiva (2).

Quali implicazioni cliniche può avere questo risultato?

Se i pazienti sono in ventilazione assistita, un simile risultato determina una marcata riduzione del lavoro respiratorio grazie all’abbattimento del carico soglia rapprentato dalla PEEP intrinseca. Infatti per iniziare l’inspirazione dobbiamo prima azzerare la pressione residua nei polmoni a fine espirazione: se questa si riduce 10 a 1 cmH2O, evidentementeanche il lavoro fatto per azzerarla si riduce proporzionalmente. (Qui per “lavoro” intendiamo lo sforzo complessivo dei muscoli respiratori che può essere quantificato con il pressure-time product).

Inoltre lo stesso meccanismo può favorire l’interazione paziente-ventilatore riducendo gli sforzi inefficaci, cioè quei tentativi di inspirazione del paziente che non riescono ad attivare il trigger.

Meno chiari sono gli effetti della riduzione della pressione di plateau sullo stress dei polmoni, che è rappresentato dalla pressione che li distende a fine inspirazione. Infatti lo stress del polmone è misurato con la pressione transpolmonare (vedi post del 7 febbraio 2012), ed è ragionevole ipotizzare che questa non sia cambiata molto rispetto alla posizione supina nonostante il calo della pressione di plateau. Si può infatti ipotizzare una riduzione consensuale della pressione pleurica e quindi il mantenimento dello stesso livello di stress. Il ragionamento può risultare complesso, eventualmente lo approfondirò se sarà richiesto in qualche commento. In ogni caso, la riduzione della autoPEEP contribuisce alla riduzione dello stress polmonare.

Altrettanto poco prevedibili possono essere gli effetti emodinamici della posizione seduta negli obesi. Se da una parte si potrebbe avere una riduzione del ritorno venoso dovuta al gradiente idrostatico che la posizione seduta aggiunge (il sangue deve andare “in salita” per raggiungere l’atrio destro dalle zone sottodiaframmatiche del corpo), dall’altra parte la probabile riduzione della pressione pleurica con la posizione seduta dovrebbe invece favorire il ritorno venoso. Lo studio non prende in considerazione questi aspetti e quindi non ci aiuta a capire quale meccanismo possa prevalere.

In conclusione, i risultati dello studio che abbiamo sommariamente presentato ci dicono che la posizione seduta negli obesi (e probabilmente anche in altri pazienti con flow limitation):

- può essere necessaria nelle fasi di weaning per aumentare l’efficienza della ventilazione;

- potrebbe essere utile nei pazienti a rischio di “barotrauma” (cioè con elevate pressioni di plateau);

- gli effetti emodinamici ad essa associati sono imprevedibili e devono essere valutati caso per caso.

Grazie per l’attenzione, un sorriso a tutti.

 

Bibliografia

1 ) Lemyze M et al. Effects of sitting position and applied Positive
End-Expiratory Pressure on respiratory mechanics of critically ill obese patients receiving mechanical ventilation. Crit Care Med 2013; 41:2592-9

2) Benedik PS et al. Effects of body position on resting lung volume in overweight and mildly to moderately obese subjects. Respir Care 2009; 54:334-9

 

Ventilazione protettiva e anestesia?

$
0
0

clintLa ventilazione meccanica in anestesia è un argomento di crescente interesse. Michele Bertelli,  un anestesista rianimatore che lavora assieme a me, ci ha preparato un post su questo argomento. Un grazie a Michele per questo spunto che sarà certamente capace di farci riflettere (e forse di cambiare alcune consuetudini consolidate sulla ventilazione in anestesia).

_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_

Qualche giorno fa mi trovavo in sala operatoria di Chirurgia Generale, io e Roberta, un dottoressa al primo anno di specialità. Primo intervento della mattinata, un laparotomia per un intervento di resezione retto-colica.
La nostra paziente non prevede difficoltà pre-operatorie particolari: ipertesa, diabetica, buone condizioni generali. Posizioniamo un catetere peridurale ed iniziamo l’anestesia generale. Induzione, intubazione oro-tracheale senza problemi e Roberta mi chiede: “Come imposto il ventilatore?” “Fai come se io non ci fossi”.
La paziente pesa 74 kg ed è alta 158 cm. Il ventilatore viene impostato con ventilazione in volume controllato con un volume corrente di 500 ml per 14 atti /minuto, PEEP 0 cmH2O.
Abbiamo una buona saturazione periferica SpO2 99% con FIO2 60%, EtCO2 39-40 mmHg e pressioni di picco intorno a 30 cmH20.
L’intervento è cominciato, è prevista una durata superiore alle 2 ore, nessun problema di emodinamica, la paziente è in lieve Trendelenburg. Chiedo a Roberta il motivo delle impostazioni del ventilatore e iniziamo a discutere. Dal computer della sala operatoria apro la pagina di Ventilab e leggiamo insieme il post del 24 luglio 2010, commentiamo le opinioni PERSONALI di chi ha scritto e modifichiamo i parametri ventilatori:
Calcoliamo il peso ideale (post 18 dicembre 2011): donne = 45.5 + 0.91 x (altezza in cm – 152.4) = 45.5 + 0.91 x (158 – 152.4) = 50 kg. Impostiamo un volume corrente di 5-8 ml/kg di peso corporeo ideale, scegliamo arbitrariamente 7 ml/kg x 50 kg = 350 ml
La paziente non è obesa, quindi PEEP 5 cmH2O. Frequenza respiratoria iniziale di 18 atti/minuto con l’accortezza di non dimenticare EtCO2 e monitoraggio grafico del ventilatore.
Un rapporto inspirazione/espirazione (I:E) tale da garantire un tempo inspiratorio pari a 1 secondo.
Contenti? Io sì, Roberta un po’ meno (giustamente!!!) e ora lei chiede a me “Perché queste impostazioni ti piacciono?”. Esclusa la stima e la completa fiducia di chi ha scritto il post preso come esempio, non so dirle se effettivamente le impostazioni scelte (che sono valide per un paziente in ventilazione meccanica ricoverato in terapia intensiva) possano “far bene” anche alla nostra signora con l’addome aperto.

Oggi però posso tentare di dare una risposta: The New England Journal of Medicine (1) ha pubblicato in agosto un articolo che fa al caso nostro.

È uno studio multicentrico francese, condotto in doppio cieco, sono stati studiati 400 pazienti adulti sottoposti a intervento di chirurgia addominale (laparoscopica o no) della durata prevista maggiore di due ore.
I pazienti del gruppo di controllo sono stati ventilati in modalità volume controllato, con volume corrente di 10-12 ml/kg di peso corporeo ideale, con PEEP zero. I pazienti del gruppo di studio sono stati ventilati in modalità volume controllato, con volume corrente di 6-8 ml/kg di peso corporeo ideale, con PEEP 6-8 cmH2O e manovre di reclutamento (pressione continua di 30 cmH2O per 30 secondi applicata ogni 30 minuti).
In entrambi i gruppi si è stati attenti a non superare una pressione di plateau di 30 cmH2O (in media 15 cmH2O nel gruppo con basso volume corrente e PEEP e 16 cmH2O nel gruppo di controllo).
Nella valutazione dell’outcome primario, definito come insorgenza di complicanze polmonari maggiori (polmonite, insufficienza respiratoria con necessità di ventilazione artificiale) o extrapolmonari (sepsi, sepsi grave, shock settico, decesso) nella prima settimana postoperatoria, si è evidenziata una differenza significativa tra i due gruppi: 22 (10.5%) complicanze nel gruppo di pazienti ventilati con basso volume corrente e PEEP e 55 (27.5%) complicanze nel gruppo di controllo (rischio relativo 0.4, CI95% 0.24-0.68, p = 0.001). L’analisi degli outcome secondari ha mostrato una ridotta permanenza in ospedale nei pazienti ventilati con basso volume corrente e PEEP.

Lo studio dimostra come la ventilazione protettiva possa essere più vantaggiosa rispetto alla “ventilazione standard” anche in anestesia. Un’ipotesi (post 26 dicembre 2011) (2) è che questa modalità ventilatoria più “soft” riduca barotrauma (da elevate pressioni), volotrauma (da sovradistensione di aree), atelectrauma (da dereclutamento), biotrauma (danno strutturale da mediatori proinfiammatori locali) e forse anche microaspirazioni di contenuto gastrico (3).

Ogni anno nel mondo circa 230 milioni di pazienti vengono sottoposti a chirurgia addominale maggiore e ventilazione meccanica: le problematiche respiratorie sono seconde solo alla infezioni (4) tra le complicanze post-operatorie. L’anestesista può contribuire a ridurre le complicanze postoperatorie con una appropriata impostazione della ventilazione meccanica.

Conclusioni.

Possiamo concludere che in tutte le condizioni in cui impostiamo una ventilazione meccanica controllata in interventi di chirurgia addominale maggiore dovremmo:
1. stabilire un volume corrente di 6-8 ml/kg di peso corporeo ideale
2. impostare una PEEP di 6-8 cmH2O
3. valutare manovre di reclutamento (pressione continua di 30 cmH2O per 30 secondi applicata ogni 30 minuti).
4. regolare la frequenza respiratoria per mantenere una PaCO2 “ragionevole”
5. mantenere una pressione di plateau inferiore a 30 cmH2O
6. ricordarci che il ventilatore può essere un’arma molto potente, sia in positivo che in negativo.

Grazie per la pazienza.

Bibliografia
1. Futier E et al. A trial of intraoperative low-tidal-volume ventilation in abdominal surgery. N Engl J Med 2013; 369:428-37
2. Vidal Melo MF et al. Protect the lungs during abdominal surgery. Anesthesiology 2013; 118: 1254-7
3. Lam SM et al. Intraoperative low-tidal-volume ventilation (letter). N Engl J Med 2013; 369:1861-3
4. Weiser TG et al. An estimation of the global volume of surgery: a modelling strategy based on available data. Lancet 2008; 372:139-44

Shock settico: vasocostrittori o fluidi?

$
0
0

rubikoneOggi parliamo di emodinamica. Anche se la ventilazione meccanica è il principale argomento di ventilab.org, ogni tanto guardiamo anche nel campo vicino dell’emodinamica, sia per le strette relazioni che esistono tra emodinamica e ventilazione meccanica, sia per l’interesse ripetutamente manifestato per queste digressioni da parte della tribù di ventilab.org (un grazie ai 7331 visitatori unici degli ultimi 30 giorni).

Vorrei condividere l’esperienza di Pierina, una donna di circa 70 anni con uno shock settico da candidemia. Ricordiamo che lo shock settico è definito da tre elementi: 1) la presenza di un’infezione a cui si associa 2) un’ipotensione arteriosa che deve essere trattata con 3) vasocostrittori anche dopo un’appropriata somministrazione di fluidi. Nella nostra Pierina la sepsi ha scatenato un’insufficienza multiorgano in piena regola: ARDS, insufficienza renale, encefalopatia, disfunzione epatica e piastrinopenia.

Una notte il medico di guardia riceve in consegna Pierina con l’infusione di noradrenalina (o norepinefrina come sarebbe più corretto dire) a 0.9 mcg.kg-1.min-1 e dignitosi valori di pressione arteriosa (circa 70 mmHg di pressione arteriosa media). Il medico di guardia decide di valutare se la somministrazione di fluidi può essere efficace nel ridurre la dose di noradrenalina, ovviamente continuando a mantenere sufficienti valori di pressione arteriosa. Pertanto nel corso della notte esegue una serie di espansioni volemiche, dopo ciascuna delle quali riesce a diminuire il dosaggio di noradrenalina, mantenendo stabile la pressione arteriosa. Alla fine del turno, dopo una notte dedicata alla cura di Rosa, il dosaggio della noradrenalina è passato da 0.9 a 0.4  mcg.kg-1.min-1 ed il medico è molto soddisfatto del risultato del proprio impegno notturno.

Fino a questo punto della storia, sei d’accordo con la soddisfazione del medico di guardia?

Però…(ovviamente c’è un “però”) Pierina aveva anche un catetere arterioso polmonare (il caro, vecchio catetere di Swan-Ganz) e l’ultima misurazione dell’indice cardiaco (prima delle espansioni volemiche) dava un valore di 4.3 l.min-1.m-2. Un “dettaglio” trascurato dal medico di guardia, che ha gestito Pierina come se non avesse a disposizione la misurazione della portata cardiaca. Il caso è interessante perchè il nostro medico ha fatto quello che normalmente viene fatto quando non si ha a disposizione il monitoraggio della portata cardiaca.

Prima di rivedere criticamente la gestione di Pierina, richiamiamo alcune considerazioni su ritorno venoso e portata cardiaca.

Espansione volemica, ritorno venoso e portata cardiaca.

Quando infondiamo fluidi, aumentiamo il volume intravascolare ed in particolare il volume del distretto venoso (che è molto più ampio e compliante di quello arterioso).

L’aumento di volume nei vasi venosi postcapillari genera ovviamente un aumento della pressione venosa postcapillare, che assimiliamo alla pressione sistemica media (vedi post del 30 aprile 2013). La pressione sistemica media è la forza che “spinge” il ritorno venoso verso l’atrio destro: più aumenta, più aumenta il ritorno venoso.

cardiovascular_system
Oltre ad incrementare il ritorno venoso, l’aumento della pressione sistemica media produce edema tissutale. Infatti la pressione sistemica media è la pressione che troviamo alla fine del circolo capillare ed il suo aumento inevitabilmente induce un incremento delle pressioni capillari e quindi la formazione di edema (come previsto dall’equazione di Starling quando vi è un aumento della pressione idrostatica interna al capillare). Questo nel caso di individui che, al momento della somministrazione di fluidi, partano da normali valori di pressione sistemica media; ovviamente nei casi di bassa pressione venosa postcapillare (disidratazione, emorragia acuta) la somministrazione di fluidi prima ripristinerà una condizionedi normalità e l’edema inizierà solo dopo il superamento delle pressioni fisiologiche.

Conclusione 1: l’espansione volemica ha due effetti diretti ed immediati: aumento del ritorno venoso ed edema tissutale. Nessuno di questi due effetti, di per se, è utile al paziente.

Un vantaggio potenziale per il paziente potrebbe esserci  se entrambe le pompe cardiache (cioè sia il ventricolo destro che il ventricolo sinistro) sono poi in grado di trasformare l’aumento del ritorno venoso in aumento di portata cardiaca. Ecco i due possibili scenari:

1. il cuore riesce a “smaltire” il maggior flusso in arrivo aumentando la portata cardiaca (cioè il flusso in uscita). Perchè questo accada entrambi i ventricoli devono essere sono “virtuosi“. Il ventricolo destro, più precaricato, riesce ad aumentare la gittata sistolica (stroke volume). L’aumento della portata cardiaca destra (nella circolazione polmonare) aumenta il ritorno venoso al ventricolo sinistro che a sua volta trasforma l’aumento del proprio precarico in aumento di stroke volume sinistro. L’effetto finale è l’aumento della portata cardiaca sistemica.

2. il cuore non riesce a “smaltire” l’aumento del ritorno venoso: l’aumento di precarico (cioè del volume del ventricolo alla fine della diastole) non è in grado di aumentare lo stroke volume ed il maggior ritorno venoso si traduce quindi nella dilatazione delle strutture vascolari a monte del ventricolo e nell’aumento delle pressioni al loro interno. Se il ventricolo che fallisce è il destro, possiamo quindi misurare un aumento della pressione venosa centrale. Se invece il fallimento è dovuto al ventricolo sinistro, possiamo misurare un aumento della pressione di incuneamento dell’arteria polmonare (pulmonary capillary wedge pressure) con congestione del circolo polmonare fino all’edema polmonare.

Conclusione 2: solo alcuni pazienti che ricevono liquidi (circa il 50%) (1-2) sono in grado di aumentare la portata cardiaca dopo l’espansione volemica. Negli altri, cioè in circa la metà dei nostri pazienti, la somministrazione di fluidi servirà esclusivamente ad aumentare il livello di edema periferico o polmonare.

Facciamoci ora una domanda fondamentale: l’aumento della portata cardiaca è un obiettivo auspicabile nel trattamento del paziente con shock?

Si considera come normale un indice cardiaco tra 2.5 e 3.5 l.min-1.m-2. Gli studi sui pazienti critici (diverso è il discorso per i pazienti sottoposti a chirurgia) hanno dimostrato che non vi è nessun vantaggio ad aumentare l’indice cardiaco oltre questi valori (3,4).

Ecco perchè non possiamo condividere la somministrazione di fluidi per ridurre la noradrenalina nella nostra Pierina. Che senso ha dare un carico di fluidi ad una paziente con un indice cardiaco di 4.3 l.min-1.m-2Che senso ha somministrare fluidi ad un paziente ipoteso (o normoteso con vasocostrittore) se la portata cardiaca è normale o elevata? Abbiamo appena visto che l’unico possibile effetto positivo dell’espansione volemica potrebbe essere l’aumento della portata cardiaca: se non ci serve aumentarla, a che scopo fare i liquidi? Il risultato saranno solo più edema e bilanci idrici positivi, che come è ben noto si associano ad un incremento della mortalità (5-8).

Conclusione 3: nei pazienti con portata cardiaca normale o elevata, per trattare l’ipotensione bisogna utilizzare i vasocostrittori e non i fluidi.

E come facciamo a sapere se un paziente ha la portata cardiaca alta o bassa? Quando salire con la noradrenalina a dosaggi elevati in sicurezza? La risposta è una sola: dobbiamo misurare la portata cardiaca. E mi sento tranquillo nello scrivere che non è assolutamente vero (come talvolta mi capita di sentire dire) che vi siano evidenze che monitoraggio emodinamico e supporto di circolo mirato siano inefficaci o dannosi nei pazienti shockati con necessità di farmaci vasoattivi. Quello che la letteratura invece supporta è che non possiamo certo pensare di affidare le nostre decisioni sulla gestione emodinamica alla valutazione di pressione arteriosapressione venosa centrale (9,10).

Conclusione 4: nel paziente con shock che richiede dosaggi elevati di vasocostrittore o frequenti espansioni volemiche, bisogna necessariamente pensare di misurare la portata cardiaca per orientare il supporto di circolo in maniera mirata.

Torniamo alla signora Pierina. Penso che quella notte sarebbe stato meglio mantenere elevato il dosaggio di noradrenalina ed evitare le espansioni volemiche. Da allora Pierina ha iniziato una abbondante rimozione di fluidi prima con la CVVH e quindi, una volta ripresa la diuresi, coi diuretici, arrivando a perdere oltre 15 kg di peso. A distanza di circa 20 giorni Pierina non ha segni di infezione, è normotesa senza farmaci vasoattivi, è ben vigile, è svezzata dalla ventilazione, ha meno di 2 mg/dL di creatinina (senza CVVH) e sta aspettando il trasferimento in riabilitazione.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab, con l’augurio di riscoprire l’emodinamica: un’arma in più nel nostro repertorio.

 

PS: Non ho volutamente analizzato altri aspetti emodinamici (wedge pressure, PVC, PPV, SVV e compagnia bella) perchè penso che nel caso presentato non avrebbero influenzato le scelte terapeutiche. Ne possiamo eventualmente discutere nei commenti.

Bibliografia
1) Cecconi M et al. Changes in the mean systemic filling pressure during a fluid challenge in postsurgical intensive care patients. Intensive Care Med 2013; 39:1299-1305
2) Marik PE et al. Dynamic changes in arterial waveform derived variables and fluid responsiveness in mechanically ventilated patients: A systematic review of the literature. Crit Care Med 2009; 37:2642–2647
3) Gattinoni L et al. A trial of goal-oriented hemodynamic therapy in critically ill patients. N Engl J Med 1995; 333:1025-32
4) Alía I et al. A randomized and controlled trial of the effect of treatment aimed at maximizing oxygen delivery in patients with severe sepsis or septic shock. Chest 1999; 115:453-61
5) Micek ST et al. Fluid balance and cardiac function in septic shock as predictors of hospital mortality Critical Care 2013; 17:R246
6) Sakr Y et al. High tidal volume and positive fluid balance are associated with worse outcome in acute lung injury. Chest 2005; 128:3098-108
7) Upadya A et al. Fluid balance and weaning outcomes. Intensive Care Med 2005; 31:1643-7
8) Wiedemann HP et al. Comparison of two fluid-management strategies in acute lung injury. N Engl J Med 2006; 354:2564-75
9) Pierrakos C et al. Can changes in arterial pressure be used to detect changes in cardiac index during fluid challenge in patients with septic shock? Intensive Care Med 2012; 38:422-8
10) Marik PE et al. Does central venous pressure predict fluid responsiveness? Chest 2008;134;172-8

Ventilazione non-invasiva: come scegliere il supporto inspiratorio (ovvero la differenza IPAP-EPAP)

$
0
0

lung-tonicAlcuni giorni fa sono stato chiamato a collaborare nella gestione di una ventilazione non-invasiva al di fuori della Terapia Intensiva in un paziente con persistente moderata acidosi respiratoria. Dopo aver concordato la variazione del livello di EPAP (ma non parleremo di questo aspetto nel post di oggi), abbiamo cercato di ottimizzare il livello di supporto inspiratorio.

Ricordiamo che IPAP (inspiratory positive airway pressure) ed EPAP (expiratory positive airway pressure) sono i livelli di pressione, rispettivamente inspiratorio ed espiratorio, che si impostano durante la ventilazione non-invasiva su alcuni ventilatori meccanici. Sia IPAP che EPAP sono misurate a partire dalla pressione atmosferica (quindi da una pressione relativa di 0 cmH2O): il livello di supporto inspiratorio (cioè l’aumento di pressione nella fase inspiratoria) equivale alla differenza IPAP-EPAP. In altre macchine la pressione espiratoria è definita PEEP (positve end-inspiratory pressure) ed il livello di supporto inspiratorio PS (pressione di supporto) o ASB (assisted spontaneous breathing): con questa modalità di impostazione la pressione durante l’inspirazione è uguale alla somma di PEEP+PS.

Per cercare il livello di supporto inspiratorio più appropriato, siamo partiti da una differenza IPAP-EPAP di 5 cmH2O fino ad arrivare a 15 cmH2O con aumenti progressivi di 2 cmH2O.

La frequenza respiratoria si è mantenuta costante tra 15 e 20 atti/min a tutti i livelli di supporto inspiratorio, il volume corrente invece è rimasto a circa 500 ml tra 5 e 13 cmH2O, ma è aumentato improvvisamente a 680 ml quando siamo passati a 15 cmH2O di supporto inspiratorio.

Cerchiamo di capire insieme che cosa è successo e come sfruttarlo per la scelta dell’impostazione del ventilatore.

Il supporto inspiratorio è una delle due forze che determina il volume corrente.

Un’altra forza può aggiungersi al supporto inspiratorio per generare il volume corrente: è la pressione generata dai muscoli respiratori del paziente durante l’inspirazione. A differenza del supporto inspiratorio (che decidiamo noi), la pressione generata dai muscoli inspiratori non è misurata durante la ventilazione (perlomeno nella normale pratica clinica), è molto variabile tra i pazienti (ma anche nello stesso paziente può variare da un momento ad un altro), dipende dalla forza muscolare, dal tipo di insufficienza respiratoria, dalle caratteristiche meccaniche dell’apparato respiratorio, dalle esigenze metaboliche e dal livello di supporto inspiratorio.

Semplificando possiamo dire che:

volume corrente = k  .  (supporto inspiratorio + pressione dei muscoli inspiratori).

Se il volume corrente è rimasto costante a diversi livelli di supporto inspiratorio, possiamo ipotizzare che anche la somma tra supporto inspiratorio e l’attività respiratoria del paziente sia rimasta costante: quindi man mano si aumentava il supporto inspiratorio, si riduceva l’attività dei muscoli inspiratori del paziente.

Vediamo le informazioni che ci aggiunge il monitoraggio grafico della ventilazione. Queste sono le tracce di pressione e flusso con 5 cmH2O di supporto inspiratorio:

ipap_10

Supporto inspiratorio 5 cmH2O

Consideriamo l’inspirazione racchiusa nel rettangolo giallo. Ricordiamo che la fase inspiratoria è caratterizzata dal segnale di flusso sopra la linea orizzontale. Il flusso inspiratorio ha una forma strana (nelle ventilazioni pressometriche ce lo aspettiamo decrescente): è caratterizzato da due picchi, un primo più basso (contrassegnato con il numero 1) ed un secondo più alto (numero 2). Il primo picco inizia quando la pressione nelle vie aeree aumenta (cioè si passa dalla EPAP alla IPAP): quindi è certamente determinato dal supporto inspiratorio di 5 cmH2O (ed in qualche misura anche dall’attività dei muscoli inspiratori che ha innescato il passaggio da EPAP a IPAP). Il secondo picco di flusso invece si verifica quando la pressione nelle vie aeree è costante (cioè durante IPAP): in questo caso è generato esclusivamente dall’attività dei muscoli inspiratori, visto che in questa fase non vi è alcun supporto inspiratorio aggiuntivo (cioè nessun ulteriore aumento di pressione). Con 5 cmH2O di supporto inspiratorio, il flusso generato dal paziente è molto superiore di quello prodotto dal ventilatore. Con questo supporto inspiratorio non stiamo certo dando un buon aiuto ad una persona con insufficienza respiratoria (questo non significa che 5 cmH2O non gli possano andare bene in altri momenti, ma certamente non in questo).

Vediamo ora cosa succede al flusso con diversi livelli di supporto inspiratorio:

flow_ipap_levels

Vediamo che ad ogni aumento di supporto inspiratorio, si riduce progressivamente il contributo del secondo picco di flusso alla genesi del flusso totale (e quindi del volume corrente). In altre parole, riduciamo il lavoro respiratorio del paziente. In particolare, a 13 e 15 cmH2O di supporto inspiratorio è chiaramente prevalente il flusso ottenuto all’inizio dell’inspirazione rispetto a quello più tardivo, prodotto totalmente dal paziente.

Se vogliamo quindi erogare un buon supporto inspiratorio in questo paziente in questo momento della sua fase di insufficienza respiratoria, possiamo iniziare la ventilazione con supporto inspiratorio di 13-15 cmH2O. Da notare che con 15 cmH2O aumenta il volume corrente, e questo potrebbe essere un segno di sovrassistenza: una scelta di solito non consigliabile (a meno che il volume corrente non sia inizialmente troppo piccolo o l’obiettivo clinico il riposo completo dei muscoli respiratori).

Il caso che abbiamo visto oggi è molto particolare: solo in alcune condizioni si vede un doppio picco di flusso inspiratorio, più spesso le variazioni di flusso a differenti supporti inspiratori sono più sfumate. Inoltre esistono molti altri eventi dell’interazione paziente-ventilatore da considerare nell’impostazione della ventilazione, non-invasiva o invasiva che sia. Avremo certo modo di discuterne in post futuri.

A questo punto penso risulti evidente che non può esistere un livello ottimale di supporto inspiratorio noto “a priori”. L’approccio migliore è quello di verificare continuamente l’effetto di ciò che facciamo su pattern respiratorio, monitoraggio grafico, sintomi ed emogasanalisi (quest’ultima nella ventilazione non-invasiva è un po’ più importante rispetto ai pazienti intubati).

Ricordiamo che quando fallisce una ventilazione non-invasiva la probabilità di morte del paziente è molto elevata. E’ di vitale importanza sapere bene quando farla e quando non farla, quando iniziarla e quando dichiarala fallita e scegliere l’intubazione; conoscere la fisiopatologia dei vari tipi di insufficienza respiratoria per scegliere le strategie ventilatorie appropriate; saper valutare l’interazione paziente-ventilatore e ad essa adeguare continuamente il setting del ventilatore, ecc. ecc. La ventilazione non-invasiva può diventare un’arma letale se si pensa che per farla sia sufficiente mettere una maschera in faccia e schiacciare due bottoni su una macchina.

Riassumendo, il supporto inspiratorio dovrebbe:

  • essere progressivamente aumentato fino a quando:
    • il profilo della curva di flusso inspiratorio mostra un unico picco iniziale oppure, se questo non fosse possibile (come nel caso illustrato nel post), un picco iniziale chiaramente prevalente sull’eventuale picco di flusso successivo;
    • il volume corrente, una volta raggiunto un valore ragionevole (5-8 ml/kg di peso ideale), non inizia ad aumentare ad ogni successivo aumento di supporto inspiratorio;
    • non si riduce significativamente la dispnea e, quando presente, l’utilizzo dei muscoli inspiratori accessori (soprattutto lo sternocleidomastoideo)
  • essere rivalutato frequentemente perchè le esigenze del paziente sono variabili. Se un paziente è supportato bene, potrebbe dopo poco tempo richiedere un livello di assistenza inferiore.

Ovviamente nei casi di ipercapnia l’emogasanalisi arteriosa ci deve successivamente confermare la riduzione della PaCO2.

Buon anno a tutti gli amici di ventilab e buona ventilazione a tutti i nostri pazienti.

Ventilazione meccanica ed infermieri: il ruolo insostituibile delle curve di pressione e flusso nell’assistenza al paziente ventilato.

$
0
0

cineseIn Terapia Intensiva gli infermieri trascorrono certamente più tempo dei medici al letto del paziente: è inevitabile. Un infermiere di norma deve dedicarsi esclusivamente a due malati, il medico spesso ne ha 6-8 da seguire, più una serie di attività aggiuntive che lo portano spesso anche fuori dal reparto di degenza. Anche solo da queste considerazioni possiamo capire quanto possa essere preziosa la comprensione del monitoraggio respiratorio da parte degli infermieri: chi lo ha continuamente sotto gli occhi può tempestivamente segnalare eventuali problemi che si dovessero presentare. Esattamente come quando si guarda una traccia elettrocardiografica al cardiomonitor. Il monitoraggio grafico della ventilazione meccanica, cioè delle curve di pressione e flusso nelle vie aeree, è quindi uno strumento indispensabile per valutare l’appropriatezza della ventilazione e deve quindi diventare parte integrante delle competenze infermieristiche in Terapia Intensiva.

Presento di seguito un esempio dell’impatto decisivo che può avere la conoscenza del monitoraggio grafico della ventilaziona da parte degli infermieri. Questo post è stato preparato da Enrico Bulleri e Cristian Fusi, i nostri infermieri docenti nel Corso di Ventilazione Meccanica per Infermieri. Un grazie ad Enrico e Cristian. E buona lettura.

_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_

Oggi vi proponiamo un altro caso in cui il monitoraggio grafico della ventilazione ci ha consentito di individuare e risolvere un problema. Avevamo un paziente ventilato in Pressure Support Ventilation con 12 cmH2O di pressione di supporto e PEEP 5 cmH2O. Durante l’esame obiettivo, guardiamo, come sempre, il setting del ventilatore e il relativo monitoraggio grafico e notiamo qualcosa di strano. Lo abbiamo filmato con il telefonino (la qualità non è il massimo) e te lo proponiamo:

Analizziamo meglio cosa stava succedendo. In corrispondenza delle frecce rosse nella figura 1 notiamo che sulle curve di pressione (in alto) e flusso (in basso) si verifica un’improvvisa caduta di entrambe le tracce verso il basso: se proviamo a leggere la curva di flusso siamo portati a pensare che il paziente abbia interrotto e poi ripreso l’espirazione, come avviene negli sforzi inefficaci. Il segno che però contraddice questa interpretazione è la concomitante caduta di pressione, che da 5 (livello di PEEP) passa quasi a 0 cmH2O: durante l’espirazione ci aspettiamo che la pressione nelle vie aeree tenda a mantenersi al livello della PEEP.

Figura 1

Figura 1

Solo questa piccola incongruenza dovrebbe metterci in allarme e farci andare a fondo del problema.

Come ci siamo comportati?

Escluso quindi che potesse esserci uno sforzo inefficace, e quindi una asincronia paziente-ventilatore, abbiamo spostato l’attenzione verso i componenti esterni del ventilatore, in particolar modo verso il circuito espiratorio, dov’è situato il sensore di flusso espiratorio (fig.2, sezione tratteggiata in rosso). Abbiamo quindi pensato che la caduta di pressione associata ad un flusso negativo (espiratorio) portesse essere spiegata da una perdita ‘a cavallo’ del sensore di flusso espiratorio, ed in particolare nella sua parte distale. Se ci fosse stata la “classica” perdita nel circuito a monte del sensore di flusso espiratorio, l’aria espirata non avrebbe attraversato il sensore, e sul nostro monitoraggio avremmo magari rilevato un’eventuale calo di pressione, ma non un flusso espiratorio.

Figura 2.

Figura 2.

Queste considerazioni ci hanno permesso di ipotizzare dove fosse il problema, e controllando la valvola espiratoria, notavamo infatti che si era parzialmente sganciata dall’alloggiamento, anomalia provocata dalla rottura del sistema di ancoraggio (figura 3).

Figura 3.

Figura 3.

L’alterazione descritta si presentava senza alcun allarme. La perdita di pressione in espirazione era tale da ridursi a valori prossimi allo zero con il rischio di favorire la ciclica apertura e chiusura degli alveoli, aumentando il rischio di VILI (ventilator-induced lung injury).
A questo punto abbiamo sostituito il presidio per verificare la correttezza della nostra ipotesi. Ed ecco come si presentava il monitoraggio grafico dopo il nostro intervento:

Risulta evidente la risoluzione del problema. Anche se a questo punto possiamo proporre al medico di adeguare l‘impostazione della ventilazione (questo paziente che ci sembra sovrassistito).

Può darsi che possa risultare difficile da comprendere la spiegazione che abbiamo datoalla genesi del problema. Quello che però dovrebbe essere evidente a qualsiasi infermiere e medico è la presenza delle anomalie viste nel primo video: c’è sicuramente qualcosa che non va e che può nuocere al paziente. La soluzione possiamo poi trovarla da soli o farci aiutare dal personale tecnico che si occupa della manutenzione dei ventilatori meccanici.

Abbiamo visto ancora una volta come la comprensione del monitoraggio grafico della ventilazione possa consentire agli infermieri di contribuire in maniera tempestiva ed efficace sulla corretta gestione del paziente ventilato.

Grazie per l’attenzione.

Enrico Bulleri & Cristian Fusi

Costante di tempo e ventilazione a pressione controllata.

$
0
0

mcEsher01Il post di oggi mi è stato suggerito dal commento che Andrea ha fatto ad un vecchio post: “come è possibile in pressione controllata con PEEP 15 e PCV 15 ottenere un plateau di 24?“.

La risposta alla domanda di Andrea può essere data solo se si comprende a fondo un concetto fondamentale per la ventilazione in pressione controllata: la costante di tempo dell’apparato respiratorio.

La costante di tempo è una caratteristica di tutte le funzioni esponenziali, ma qui considereremo ovviamente solo la sua applicazione all’inspirazione.

L’inspirazione può essere descritta da una funzione esponenziale solo quando è la conseguenza dell’applicazione di una pressione costante ad un apparato respiratorio in condizioni di rilasciamento muscolare. E’ quello che avviene durante la ventilazione a pressione controllata, in cui scegliamo un livello di pressione costante da mantenere per tutta l’inspirazione. Vediamo qui sotto un esempio della curva di pressione durante la ventilazione a pressione controllata.

pcv_insp

Il valore di pressione costante durante l’inspirazione condiziona il volume massimo che può essere erogato al paziente: il massimo volume erogabile è dato dal prodotto della pressione applicata (cioè il livello di pressione inspiratoria sopra PEEP) per la compliance dell’apparato respiratorio. La compliance infatti esprime la variazione di volume per ogni cmH2O applicato: una compliance di 60 ml/cmH2O vuol dire, ad esempio, che il volume dell’apparato respiratorio aumenta di 60 ml per ogni cmH2O di pressione applicata. Se, per ipotesi, applicassimo 12 cmH2O di pressione inspiratoria ad un paziente con 60 ml/cmH2O di compliance, potremmo al massimo ottenere un volume inspiratorio di 720 ml. Il volume realmente erogato dipende, in ogni istante, dal tempo trascorso dall’inizio dell’inspirazione, dalla costante di tempo e dal volume massimo teorico.

La costante di tempo (che si misura in secondi) descrive la velocità con cui l’apparato respiratorio raggiunge il suo massimo volume teorico. Quando dall’inizio dell’insufflazione è trascorso un tempo uguale alla costante di tempo, in quel momento sarà stato erogato un volume pari al 63% del volume massimo teorico. Se il paziente dell’esempio precedente avesse una costante di tempo di 0.8″, dopo 0.8″ dall’inizio dell’inspirazione avrebbe ricevuto 454 ml di volume, ovvero il 63% di 720 ml. Dopo un tempo pari a 3 volte la costante di tempo (nel nostro ipotetico paziente dopo 2.4″) il volume erogato sarà il 95% del volume massimo teorico (713 ml) e per arrivare di fatto ad eguagliare il volume massimo teorico (99%) servono circa 5 costanti di tempo (cioè 4″ nel paziente dell’esempio).

La costante di tempo è  uguale al prodotto della compliance per la resistenza dell’apparato respiratorio (è uno dei modi per calcolarla, se dovesse interessare ne potremmo riparlare in un prossimo post). Se il paziente dell’esempio precedente avesse una resistenza di 10 cmH2O.l-1.sec, la sua costante di tempo sarebbe 0.6″ (per il calcolo la compliance deve essere espressa in litri/cmH2O e quindi diventa 0.06 l/cmH2O). Ne consegue che qualsiasi aumento della resistenza o della compliance determina un aumento direttamente proporzionale della costante di tempo.

La costante di tempo gioca un ruolo decisivo nel volume erogato e nel significato della pressione delle vie aeree durante pressione controllata.

pcv_tau_fastCi saranno alcuni pazienti in cui il volume erogato aumenta rapidamente (=costante di tempo breve). Quando il volume insufflato raggiunge il volume massimo teorico, la pressione alveolare diventa uguale alla pressione di insufflazione del ventilatore (la pressione alveolare è uguale al rapporto volume/compliance, vedi post del 24/06/2011): quando la pressione applicata dal ventilatore e quella alveolare sono uguali, non esiste più alcuna differenza di pressione tra ventilatore ed alveoli e quindi cessa il flusso inspiratorio. Si crea di fatto una pausa nella parte finale dell’inspirazione. A sinistra puoi vedere un esempio di questo comportamento. Il paziente ha una costante di tempo chiaramente breve e già a metà inspirazione ha ottenuto il volume massimo ed inizia quindi una pausa.

Quando vediamo una pausa nel flusso inspiratorio nella ventilazione a pressione controllata, abbiamo almeno due informazioni importanti:
1) la pressione di fine inspirazione (cioè la pressione di picco) è già ottenuta in assenza di flusso, quindi è una pressione che può approssimare la pressione di plateau, che normalmente misuriamo facendo l’occlusione delle vie aeree a fine inspirazione proprio per avere una pausa di flusso. Quindi la differenza tra la pressione di picco e la pressione di plateau sarà minima (spesso 1-2 cmH2O), imputabile solamente a fenomeni redistributivi e viscoelastici (credetemi sulla parola…) che si completano quando prolunghiamo la pausa con una vera e propria manovra di occlusione mantenuta 3-4 secondi. In queste condizioni la pressione di picco è quindi una buona approssimazione della pressione di plateau e può darci informazioni sullo stress (la distensione dell’apparato respiratorio a fine inspirazione);
2) l’aumento della frequenza respiratoria è efficace ad aumentare la ventilazione/minuto. Infatti aumentando la frequenza respiratoria, si riduce inevitabilmente il tempo inspiratorio (a parità di I:E). In questo caso la riduzione del tempo inspiratorio non determina riduzioni del volume corrente perchè il volume massimo è già stato ottenuto ben prima della fine del tempo inspiratorio.

pcv_tauMolti pazienti non si comportano però in questo modo perchè hanno una costante di tempo più lunga. Qui sulla destra vediamo le curve del monitoraggio respiratorio di un paziente con una costante di tempo maggiore rispetto all’esempio precedente. Sottolineo che in questo momento non ci poniamo l’obiettivo di misurare la costante di tempo, ma solo di capire dal monitoraggio grafico della ventilazione meccanica se siamo di fronte ad un caso di costante di tempo lunga o breve.

Questo paziente alla fine dell’inspirazione non ha certamente raggiunto il volume massimo teorico: la sua lunga costante di tempo determina un aumento lento del volume polmonare (e quindi della pressione alveolare). La conseguenza della persistente differenza tra pressione del ventilatore meccanico e pressione alveolare a fine inspirazione è la presenza di flusso a fine inspirazione. Le implicazioni di questo comportamento saranno molto diverse rispetto al caso precedente:
1) la differenza tra pressione di picco e pressione di plateau in questo caso è dovuta a 2 diverse componenti: a) i fenomeni redistributivi e viscoelastici sopracitati (che in questo caso, per motivi piuttosto complicati che tralasciamo, potrebbero essere quantitativamente maggiori rispetto ai pazienti con costante di tempo breve); b) l’occlusione delle vie a fine inspirazione interrompe un flusso ancora presente e quindi determina la scomparsa della pressione resistiva (che è una delle componenti della pressione delle vie aeree, vedi l’equazione di moto nel post del 24/06/2011) . Poichè la pressione resistiva è data dal prodotto del flusso per le resistenze, il calo di pressione dovuto all’interruzione del flusso sarà tanto maggiore quanto più alto è il flusso alla fine dell’inspirazione e quanto più elevate sono le resistenze delle vie aeree (vedi post del 5/12/2011 e del 20/10/2013). Adesso possiamo quindi rispondere compiutamente alla domanda iniziale di Andrea: ”come è possibile in pressione controllata con PEEP 15 e PCV 15 ottenere un plateau di 24?“. Questo può avvenire facilmente in un paziente con costante di tempo relativamente lunga:  perchè l’interruzione del flusso a fine inspirazione avviene ancora con flusso presente e quindi la pressione resistiva è rilevante, soprattutto se il paziente ha elevate resistenze (ecco come può formarsi un circolo vizioso: alte resistenze->lunga costante di tempo->elevato flusso a fine inspirazione->alta pressione resistiva a causa sia del flusso che delle resistenze!)
2) l’aumento di frequenza respiratoria sarà poco efficace ad aumentare la ventilazione/minuto a parità di pressione inspiratoria. Infatti la riduzione del tempo inspiratorio interrompe sempre più precocemente il flusso, riducendo quindi il volume corrente. Questo fenomeno può essere poi amplificato dall’aggravarsi dell’iperinflazione dinamica che consegue alla riduzione del tempo espiratorio.

Riassumiamo e confrontiamo nella figura qui sotto le differenze delle curve di flusso e volume con costante di tempo breve (a sinistra) e lunga (a destra) e come cambia il volume dimezzando il tempo inspiratorio.

pcv_tau_volComplicato? Certamente! A mio parere la ventilazione a pressione controllata è densa di insidie e dovrebbe essere utilizzata, nei casi più complessi, solo se si padroneggia la meccanica respiratoria ed il monitoraggio grafico della ventilazione meccanica.

Oggi abbiamo detto molte cose, ma come sempre cerchiamo di far emergere un messaggio pratico: la costante di tempo condiziona in modo rilevante la ventilazione a pressione controllata. Possiamo distinguere due casi paradigmatici:

1) il flusso inspiratorio si azzera prima della fine del periodo inspiratorio (=> costante di tempo breve):
- la pressione di picco può essere una stima approssimata per eccesso della pressione di plateau;
- la variazione della frequenza respiratoria non modifica il volume corrente e quindi il suo effetto sulla ventilazione è prevedibile;
- la gestione della ventilazione a pressione controllata è facile.

2) il flusso inspiratorio è ancora presente alla fine del periodo inspiratorio (=> costante di tempo lunga):
- la pressione di picco può essere sensibilmente più elevata della pressione di plateau: è quindi necessario affidarsi all’occlusione delle vie aeree a fine inspirazione per stimarla;
- la variazione della frequenza respiratoria può modificare (anche in modo rilevante) il volume corrente e quindi il suo effetto sulla ventilazione è imprevedibile. Ad ogni cambio di impostazione del ventilatore bisogna quindi controllare l’effetto sul volume corrente;
- la ventilazione a pressione controllata diventa insidiosa e dovrebbe essere  affidata a medici esperti.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.


ASMA GRAVE E VENTILAZIONE MECCANICA: IL CASO DELLA SIGNORA P.R.

$
0
0

Tortuga

L’asma è una malattia comune le cui riacutizzazioni portano in Pronto Soccorso milioni di pazienti ogni anno. Nel corso dei decenni la sua prevalenza nella popolazione è andata aumentando tanto da assumere una netta rilevanza sociale. Una bassa percentuale di pazienti ha necessità di trattamento con intubazione tracheale che si associa però a una mortalità intraospedaliera aumentata [1]. Alcuni aspetti risultano critici: individuare il momento appropriato per l’intubazione tracheale, il mancato riconoscimento delle complicanze da iperinflazione, il corretto setting del ventilatore.

 Il caso

La signora P.R. di 69 anni, entra nella nostra terapia intensiva proveniente dal PS per stato asmatico grave. Il trattamento (con broncodilatatori in puff, cortisonico endovenoso, solfato magnesio e.v., adrenalina a boli refratti, ventilazione non invasiva), iniziato la sera prima e somministrato per tutta la notte, non ha portato ad alcun miglioramento del quadro clinico.

Poiché la paziente si presenta insofferente, agitata, con dispnea ed ortopnea, associate a importante desaturazione periferica (SpO2 ~ 80%) nonostante l’ossigenoterapia, previa sedazione e curarizzazione viene intubata e sottoposta a ventilazione meccanica.

L’impostazione iniziale della ventilazione con 350 ml di volume corrente per 12 atti al minuto con I:E = 1:4 senza PEEP, risponde alla preoccupazione, espressa in modo concorde da tutta la letteratura, di ventilare senza accrescere l’iperinflazione: quindi volumi correnti ridotti, lunghi tempi espiratori, assenza di PEEP esterna, pressioni di lavoro adeguate a superare le pressioni di picco. Quale modalità di ventilazione è scelto il volume controllato. La paziente è mantenuta profondamente sedata con infusione continua di Propofol e curarizzata ogni volta che si rilevano segni di asincronia con il ventilatore.

L’EAB dopo 20’ di ventilazione mostra acidosi ipercapnica (pH = 7.25, PaCO2 = 67 mmHg) senza grave ipossiemia (PaO2 = 116).

Gli obiettivi della terapia ventilatoria in questa paziente sono

Assicurare una ventilazione alveolare sufficiente (stabilità/riduzione della PaCO2)

Evitare le complicanze da iperinflazione

 

Per raggiungere questi obiettivi siamo partiti dall’osservazione delle curve e dei valori pressori ipotizzando di incrementare la ventilazione alveolare (aumentando il volume corrente e la frequenza respiratoria) e forse anche inserire una PEEP esterna.

Con le impostazioni iniziali della ventilazione abbiamo fatto perciò le manovre di occlusione che evidenziano PEEPtot = 7 cmH2O (a zero PEEP) e Pplat = 11 cmH2O.

 

Si è deciso di aumentare il volume corrente a 400 ml e la frequenza a 18 atti, con rapporto I:E = 1:4, aggiungendo 4 cmH2O di PEEP esterna.
Dopo un paio di minuti con questa nuova impostazione le manovre di occlusione mostrano PEEPtot = 9 e Plat = 13 cmH2O.

Fig01

Pertanto è stata mantenuta questa impostazione del ventilatore caratterizzata da una pressione di plateau entro ampi margini di sicurezza senza significativo incremento della PEEP intrinseca. Le emogasanalisi successive evidenziano progressiva normalizzazione del pH con riduzione netta della PaCO2; il monitoraggio delle pressioni delle vie aeree, con manovre di occlusione ripetute nel corso della ventilazione, conferma plateau nella norma e stabilità della PEEP totale.

Fig02

La ventilazione meccanica è proseguita per 72 ore associata ad una terapia medica massimale (beta-2 stimolanti e broncodilatatori + cortisonico in puff, cortisonico endovenoso) : dopo le prime 24 ore di ventilazione controllata è stata sospesa la sedazione e testata la capacità della paziente di mantenere un respiro assistito o di sospendere la ventilazione meccanica. Il fallimento di questi tentativi ha richiesto la ripresa della sedazione fino all’ultimo tentativo che si è concluso con successo.

 

 

Conclusioni

Il primo messaggio che possiamo portare a casa è che accettare una persistente moderata acidosi respiratoria o la sua lenta correzione evita di incappare nelle complicanze da iperinflazione che possono arrivare al pnx iperteso e all’arresto cardiaco. Quando non sappiamo bene qual è la ventilazione corretta per il nostro paziente evitiamo almeno di fare danno.

Il secondo messaggio è che è possibile personalizzare la terapia ventilatoria nel nostro paziente con asma grave. Possiamo cioè passare da una generica ipoventilazione alveolare ad un setting che ci consente di puntare alla rimozione della CO2 senza incorrere nelle complicanze dell’iperinflazione; per ottenere questo obiettivo è necessario attuare un monitoraggio molto semplice: PEEP totale (mediante un’occlusione di fine espirazione) e Pplat (mediante un’occlusione di fine inspirazione) [2]. Le occlusioni possiamo farle ogni volta che serve, purché il paziente sia passivo. Utilizzando la modalità a volume controllata impostiamo volume corrente (in un range tra i 4 ed i 7 ml/Kg di peso ideale) e frequenza in modo da tenere la Pplat lontana dai valori potenzialmente pericolosi (diciamo nettamente sotto i 25 cmH2O) [3] e bassa la PEEPtot (< 15   cmH2O) senza dimenticare che la PEEPtot contribuisce alla Pplat. Quindi il metodo è: imposto, ventilo per qualche minuto, misuro ed eventualmente correggo.

E la PEEP esterna? Facciamo le occlusioni a zero PEEP esterna e vediamo. Se la PEEP esterna non si somma (o solo parzialmente) alla PEEPi e la PEEPtot resta “bassa” posso impostare una PEEP esterna di pochi (4 – 5) cmH2O.

Una volta tanto faremo attenzione al valore della pressione di picco: se vogliamo che il ventilatore eroghi il volume corrente impostato dobbiamo fissare il limite della pressione di lavoro al di sopra del valore della pressione di picco. Per completare il quadro circa l’impostazione del ventilatore vi rimando al post di Daniele (http://www.ventilab.org/2010/12/31/ventilazione-meccanica-del-paziente-asmatico-grave/).

 

Bibliografia

  1. Louie S, Morrissey BM, Kenyon NJ, Albertson TE, Avdalovic M. The critically ill asthmatic from ICU to discharge. Clin Rev Allergy Immunol. 2012 Aug;43(1-2):30-44.
  2. Barry Brenner, Thomas Corbridge, and Antoine Kazzi. INTUBATION AND MECHANICAL VENTILATION OF THE ASTHMATIC PATIENT IN RESPIRATORY FAILURE. The Journal of Emergency Medicine, Vol. 37, No. 2S, pp. S23–S34, 2009.
  1. Shapiro JM.  Intensive care management of status asthmaticus. Chest. 2001 Nov;120(5):1439-41.

Il rapporto I/E e ventilazione meccanica: come impostarlo e perchè.

$
0
0

half-empty-half-fullValentina, una giovane specializzanda, mi ha chiesto: “qual è il beneficio nel variare il rapporto I:E per diminuire l’EtCO2?”

Per esperienza so che le incertezze di Valentina sul rapporto I:E sono condivise da moltissimi colleghi, anche esperti: affronto quindi volentieri il problema del criterio di scelta del rapporto I:E.

Iniziamo a definire  cosa si intente per rapporto I:E. Un ciclo respiratorio è composto dalla fase inspiratoria (I) e dalla fase espiratoria (E) ed il rapporto I:E esprime il rapporto tra la durata dell’inspirazione e quella dell’espirazione. Quindi un rapporto I:E di 1:2 sta a significare che la durata dell’inspirazione I è la metà della durata dell’espirazione E, mentre un I:E di 1:1 ci dice che inspirazione ed espirazione hanno una uguale durata. Lo stesso concetto è espresso, anche se in maniera leggermente diversa, dal rapporto TI/TTOT, dove  TI indica la durata dell’inspirazione e TTOT la durata dell’intero ciclo respiratorio (cioè inspirazione+espirazione). Un I:E 1:2 corrisponde ad un  TI/TTOT di 0.33: è infatti equivalente dire che l’inspirazione dura 1/2 dell’espirazione o 1/3 dell’intero ciclo respiratorio. Il rapporto I:E è forse il parametro più utilizzato sui ventilatori di terapia intensiva e anestesia per impostare la durata di inspirazione ed espirazione, mentre il  TI/TTOT è di gran lunga quello più utilizzato nella letteratura scientifica. Alcuni ventilatori non fanno impostare nè I:E nè  TI/TTOT, ma preferiscono (a mio parere intelligentemente) far scegliere il tempo inspiratorio T(cioè la durata dell’inspirazione). D ata la frequenza respiratoria (cioè la durata del ciclo respiratorio), l’impostazione di I:E, TI/TTOT o TI ha l’unica conseguenza di definire la durata di inspirazione ed espirazione.

In quali ventilazioni è impostabile il I:E (o il  TI/TTOT o il TI )?

Nelle ventilazioni ciclate a tempo, cioè quando l’inspirazione termina dopo un tempo predefinito: volume controllato, pressione controllata, pressione controllata a target di volume, bilevel. Il rapporto I:E non è invece impostabile durante la pressure support ventilation poichè questa ventilazione è ciclata a flusso (=trigger espiratorio) (vedi post del 22 maggio 2011).

Quanto è il  TI/TTOT ”normale”?

In soggetti normali, anche a differenti livelli di ventilazione minuto, il  TI/TTOT è piuttosto costante e mediamente è di circa 0.45 (1) (che corrisponde ad un I:E di 1:1.5), mentre nei pazienti con insufficienza respiratoria è circa 0.4 (I:E 1:1.2), indipendentemente dal tipo di insufficienza respiratoria (2).

E’ utile impostare un I:E “normale” nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica?

Il rapporto I:E deve essere adeguato agli obiettivi clinici e non al presunto rispetto della fisiologicità. Possiamo identificare tre obiettivi che possano essere in qualche modo influenzati dalla scelta del rapporto I:E: 1) il miglioramento dell’ossigenazione; 2) la limitazione dell’iperinflazione dinamica; 3) la sincronia tra ventilatore e paziente.

Questi tre diversi obiettivi determinano scelte e logiche completamente diverse riguardo il rapporto I:E, che analizziamo di seguito.

1) Rapporto I:E e miglioramento dell’ossigenazione

Nei pazienti con ipossiemia da mismatch ventilazione/perfusione (vedi post del 21/10/2012), come ad esempio nella ARDS, l’ossigenazione può essere migliorata dall’aumento della pressione media delle vie aeree (che stima la pressione media alveolare nei pazienti senza rilevante PEEP intrinseca) (3). La pressione media delle vie aeree è la media delle pressioni delle vie aeree misurate istante per istante durante l’intero ciclo respiratorio (non ha nulla a che vedere con la pressione di plateau), quindi sia durante l’inspirazione che l’espirazione. La pressione media delle vie aeree è normalmente aumentata con l’applicazione della PEEP, ma può essere anche aumentata dall’aumento della durata dell’inspirazione, durante la quale ci sono pressioni più elevate, rispetto all’espirazione, durante la quale ci sono le pressioni delle vie aeree più basse. (per motivi un po’ complessi questo è particolarmente vero nelle ventilazioni pressometriche o nelle volumetriche con pausa di fine inspirazione).

Quindi nei pazienti con ARDS (e nei pazienti con ipossiemia da riduzione relativa della ventilazione rispetto alla perfusione) può essere utile privilegiare la durata dell’inspirazione. Il mio approccio personale è di iniziare con un rapporto I:E di 1:1 nei pazienti passivi alla ventilazione meccanica e di lasciarlo il più lungo possibile (cioè evitando le asincronie, vedi sotto) nei pazienti non passivi alla ventilazione.

2) Rapporto I:E e riduzione dell’iperinflazione dinamica

Nei pazienti in cui l’iperinflazione dinamica è un problema (non sempre lo è!), bisogna agire in maniera opposta rispetto al punto precedente. Si deve privilegiare il tempo espiratorio rispetto a quello inspiratorio ed il rapporto I:E deve quindi essere basso (ad esempio 1:4), ed associato ad una bassa frequenza respiratoria. Questo consente di avere più tempo per espirare e quindi ridurre l’iperinflazione dinamica e l’impatto negativo che questa può avere sull’emodinamica e sulla sovradistensione polmonare. La riduzione della sovradistensione polmonare (se presente) può portare anche ad una riduzione del rapporto ventilazione/perfusione e quindi dell’effetto spazio morto: in questo caso potremmo osservare una riduzione della PaCO2 a parità di ventilazione.

Per affrontare il quesito di Valentina, non penso che questo però normalmente funzioni durante laparoscopia. Anzi, la chirurgia laparoscopica può indurre una compressione delle basi polmonari ed una riduzione della capacità funzionale residua, tanto è vero che a volte con l’induzione dello pneumoperitoneo si osserva ipossiemia che regredisce con l’applicazione della PEEP. In questi casi, se proprio si vuole essere perfezionisti, potrebbe essere quindi preferibile l’approccio visto nel punto precedente.

3) Rapporto I:E e sincronia paziente-ventilatore.

Questo obiettivo è rilevante nelle ventilazioni assistite-controllate , cioè quando impostiamo una ventilazione controllata e facendo triggerare alcuni (o tutti) gli atti respiratori al paziente. Nella ventilazione assistita-controllata c’è una complicazione decisiva: non conosciamo a priori la frequenza respiratoria che il paziente farà, visto che questa dipende da quanti atti saranno triggerati. E questo ha implicazioni rilevantissime. Esempio. Impostiamo un I:E di 1:2 (che spesso è di default in molti ventilatori e viene lasciato immodificato) ed una frequenza respiratoria, ad esempio, di 10/min (con l’obiettivo di garantire almeno questi atti respiratori). Ne consegue che la durata dell’inspirazione sarebbe di 2 secondi (un ciclo respiratorio dura 6 secondi e l’inspirazione 1/3 di questo tempo) se il paziente rimanesse passivo. Il paziente, che invece è attivo ed utilizza la possibilità di triggerare, raggiunge in realtà una frequenza respiratoria di 20/min, il ciclo respiratorio reale diventa quindi di 3 secondi. Ma la durata dell’inspirazione rimane di 2 secondi (frequenza respiratoria ed I:E impostati determinano la durata dell’inspirazione): inevitabilmente rimane solo 1 secondo per espirare prima dell’attivazione dell’inspirazione successiva. Abbiamo impostato un I:E di 1:2 ed in realtà otteniamo un I:E di 2:1. E di norma è una pessima scelta che ha come conseguenza asincronia ed iperinflazione dinamica.

Il messaggio da ricordare è quindi che quando il paziente triggera atti inspiratori in realtà non dobbiamo guardare il I:E che impostiamo ma la durata dell’inspirazione che otteniamo. La durata dell’espirazione non è sotto il nostro controllo ma è decisa dal paziente, che la interrompe quando triggera l’atto successivo. Quindi dobbiamo “manipolare” il I:E avendo come UNICO OBIETTIVO la definizione di un tempo inspiratorio adatto al paziente.

Ma quanto è lungo un tempo inspiratorioadatto” al paziente? Partiamo da una considerazione teorica. Un paziente con un supporto inspiratorio appropriato spesso ha una frequenza respiratoria di circa 25/min. A questa frequenza, se il paziente respirasse spontaneamente ed avesse un “normale”  TI/TTOT di 0.4-0.45 (vedi sopra), avrebbe un’inspirazione della durata di circa 1 secondo. Questa sarà leggermente più breve (circa 0.8 secondi) per frequenze respiratorie superiori. Ecco un punto di partenza per la scelta del tempo inspiratorio in ventilazione assistita-controllata: impostiamo un I:E che determini una durata dell’inspirazione di circa 1 secondo. Ovviamente il I:E da scegliere varia in funzione della frequenza respiratoria che impostiamo sul ventilatore: ma tutti i ventilatori ci mostrano anche il valore del tempo inspiratorio quando modifichiamo frequenza e I:E.

Dicevamo che questo è il punto di partenza, poi dobbiamo certamente analizzare il monitoraggio grafico della ventilazione (le curve di flusso e pressione delle vie aeree) per affinare la nostra scelta.

Ecco un esempio. (Se sei stanco, ti suggerisco di saltare alle conclusioni, riposarti e leggere l’esempio con attenzione più tardi). Qui sotto vediamo il monitoraggio grafico di un paziente con una ventilazione assistita-controllata (pressometrica a target di volume). La frequenza respiratoria impostata è 6 ed il I:E è 1:9. E’ una scelta che faccio spesso quando voglio lasciare al paziente il completo controllo della frequenza respiratoria: il risultato finale è 1 secondo di tempo inspiratorio (il ciclo respiratorio dura 10 secondi, con 1 parte in inspirazione e 9 parti in espirazione).

acv_asincrona

Analizziamo il risultato in termini di sincronia in un dettaglio del tracciato, la traccia in alto è la pressione delle vie aeree e quella in basso il flusso:

acv_asincrona_det

Il paziente attiva il trigger a livello della linea tratteggiata 1: la pressione scende ed il flusso inspiratorio inizia. Il tempo di 1 secondo della durata programmata dell’inspirazione finisce a livello della linea 3. Vediamo che fino alla linea 2 in realtà c’è flusso inspiratorio (cioè  la traccia di flusso è al di sopra della linea dello zero), ma fra la linea 2 e la linea 3 il flusso è addirittura espiratorio (siamo ancora nel periodo teoricamente inspiratorio). E vediamo che fra la linea 2  e la linea 3 la pressione delle vie aeree è aumentata rispetto al periodo di flusso inspiratorio: questo significa che in questa porzione di tempo inspiratorio il paziente cerca di espirare, aumenta quindi la pressione nel circuito ed il ventilatore a questo punto concede un piccolo flusso espiratorio. Se il ventilatore non concedesse un po’ di espirazione in questo momento, la pressione delle vie aeree aumenterebbe molto di più.

Tutti questi segni ci dicono (o, meglio, ci urlano) che abbiamo impostato una durata dell’inspirazione troppo lunga per questo paziente (oltre ad avergli dato un supporto inspiratorio insufficiente, ma questo non è l’oggetto del nostro ragionamento).

Abbiamo cercato di risolvere il problema riducendo il tempo inspiratorio per adattare l’inspirazione del ventilatore con quella del diaframma del paziente. Per diminuire il tempo inspiratorio abbiamo aumentato la frequenza respiratoria a 9/min ed il rapporto I:E a 1:8. La conseguenza è un tempo inspiratorio di circa 0.75 secondi. (per dovere di completezza aggiungiamo che abbiamo aumentato anche un poco il volume target per aumentare il supporto inspiratorio). Ed ecco il risultato:

acv_sincrona

La sincronia tra inspirazione del paziente e quella del ventilatore è stata finalmente raggiunta. L’inspirazione inizia con la prima linea tratteggiata (il flusso diventa positivo) e termina con la seconda linea tratteggiata (il flusso diventa negativo). L’inizio della espirazione produce subito il picco di flusso espiratorio e contemporaneamente non si osserva, soprattutto, un significativo aumento della pressione nelle vie aeree.

CONCLUSIONI.

Riepiloghiamo i punti salienti del post. Il rapporto I:E deve essere impostato in maniera diversa in funzione dell’obiettivo clinico principale che ci poniamo (se non abbiamo obiettivi, ricordiamo che la fisiologia e la clinica ci dicono che questo è abbastanza costante in un trange tra 1:1.5 e 1:1.2):

1) ipossiemia: è preferibile un I:E in cui l’inspirazione sia privilegiata rispetto alla fisiologia ed all’impostazione di default dei ventilatori (ad esempio 1:1)

2) iperinflazione dinamica (di rilevanza clinica): è fortemente raccomandato un I:E in cui l’espirazione sia privilegiata rispetto alla fisiologia ed all’impostazione di default dei ventilatori (ad esempio 1:4)

3) sincronia paziente-ventilatore: dimenticare il rapporto I:E e guardare solo il tempo inspiratorio. Iniziare con un tempo inspiratorio di circa 1 secondo e perfezionare la scelta guardando il monitoraggio grafico.

Un particolare saluto ai tanti specializzandi che seguono ventilab: il futuro dipende da voi.

E, come sempre, un sorriso a tutti.

 

Bibliografia.

1) Neder JA et al. The pattern and timing of breathing during incremental exercise: a normative study. Eur Respir J 2003; 21: 530-8

2) Del Rosario N et al. Breathing pattern during acute respiratory failure and recovery. Eur Respir J 1997; 10: 2560-5

3) Marini JJ. Mean airway pressure: physiologic determiants and clinical importance. Part 2: clinical implications. Crit Care Med 1992; 20:1604-16

Manovra di reclutamento alveolare nella ARDS: quando serve, come farla.

$
0
0

decumaniQualche settimana fa abbiamo ricoverato in Terapia Intensiva una ragazza di 18 anni (la chiameremo Daniela) che dopo un incidente stradale è finita in un fossato pieno d’acqua nel quale ha avuto un annegamento e da cui è stata estratta in arresto cardiaco.

Daniela è stata subito rianimata con successo, ma alla ripresa della circolazione spontanea lo stato neurologico era veramente preoccupante: “coma profondo” (GCS 3), midriasi bilaterale e riflesso fotomotore assente. All’arrivo in ospedale Daniela viene sotto posta ad una TC che evidenzia un edema cerebrale diffuso.

Al drammatico quadro neurologico si associa una gravissima insufficenza respiratoria, la saturazione arteriosa fatica a mantenersi a 80-85% (Daniela ovviamente è già intubata e ventilata). Alla TC del torace si evidenzia un danno polmonare diffuso bilaterale. Qui sotto sono riprodotte tre scansioni a diversi livelli del torace.tc_toraceNonostante la ventilazione meccanica e la PEEP impostata ricercando la minor driving pressure (vedi post del 6 ottobre 2013), l’ossigenazione resta particolarmente critica: la PaO2 è 48 mmHg con FIO2 1. Viene quindi eseguita una manovra di reclutamento alveolare e questa cambia completamente il corso degli eventi. Rapidamente la saturazione aumenta, si riesce a ridurre la FIO2. Dopo un’ora il PaO2/FIO2 è attorno ai 200 mmHg. Alla fine del post vedremo come finisce la storia di Daniela.

Occupiamoci ora della manovra di reclutamento alveolare. Nel caso di Daniela il reclutamento alveolare ha veramente cambiato il decorso clinico; ma è sempre così? Cosa è una manovra di reclutamento alveolare? Quando può essere utile farla? E come farla?

La risposta a queste domande è necessariamente articolata. Sappiamo che i polmoni dei pazienti con ARDS possono avere strutture alveolari collassate ma potenzialmente recuperabili alla ventilazione se esposte, per brevi periodi, a pressioni più elevate di quelle che normalmente accettiamo. Le manovre di reclutamento quindi hanno l’obiettivo di “riaprire” zone polmonari che viceversa non sarebbero raggiunte dalla ventilazione. Compito della PEEP è invece mantenere il risultato del reclutamento: senza una PEEP appropriata infatti si ha nuovamente un graduale collasso delle aree reclutate. Per questo dopo una manovra di reclutamente si dovrebbe cercare la best PEEP.

Tuttavia le nostre attuali conoscenze non supportano l’efficacia delle manovre di reclutamento per la riduzione della mortalità dei pazienti con ARDS. E’ invece ben documentato che spesso l’esecuzione di una manovra di reclutamento alveolare si associa ad effetti collaterali anche gravi (in particolare ipotensione ed ipossiemia) (1,2). Anche per queste considerazioni non eseguo normalmente le manovre di reclutamente nei pazienti con ARDS. Questo non significa che non le prenda mai in considerazione: ritengo che le manovre di reclutamento possano essere eseguite ogni volta che non si riesce ad uscire da una grave ipossiemia nonostante una corretta ventilazione (come nel caso di Daniela) oppure quando si osserva un evidente e persistente peggioramento dell’ossigenazione dopo le tracheoaspirazioni o le deconnessioni dal ventilatore meccanico.

Le manovre di reclutamento sembrano essere più efficaci nelle ARDS diffuse rispetto a quelle focali (3), nei pazienti con ARDS precoce ed in quelli con elastanza toracica normale (cioè senza un aumento di rigidità della gabbia toracica, come può accadere in caso di ipertensione addominale) (4). (la nostra Daniela era proprio la paziente ideale per una manovra di reclutamento!)

La manovra di reclutamento alveolare può essere fatta in diversi modi. Due spossibili strategie sono:

1) mantenere per un breve periodo una elevata pressione continua delle vie aeree. Ad esempio si può mantenere una pressione di 40 cmH2O per 40 secondi, semplicemente mettendo il paziente in  CPAP 40 cmH2O per 40 secondi. Alcuni suggeriscono di fare due manovre di reclutamento di 20 secondi ciascuna a distanza di 1 minuto l’una dall’altra. Questo può essere particolarmente utile nei pazienti che presentano ipotensione durante l’applicazione dei 40 cmH2O.  Peraltro spesso i pazienti che hanno una marcata ipotensione durante la manovra di reclutamento sono quelli che meno ne beneficiano (4); inoltre gran parte del reclutamento si verifica nei primi 10 secondi della manovra (5). Nessun problema quindi ad interrompere una manovra di reclutamento in caso di ipotensione.

2) effettuare un breve periodo di ventilazione a pressione controllata (di solito 2-3 minuti) con una PCV di 15 cmH2ed una PEEP tra 25 e 35 cmH2O. Esistono molte varianti di questa tecnica ma tutte condividono il raggiungimento, per qualche minuto, di pressioni di picco tra 40 e 50 cmH2O con ventilazione pressometrica utilizzando alte PEEP (20-35 cmH2O) e valori di PCV “convenzionali” (15-20 cmH2O). Questa modalità di reclutamento è probabilmente meglio tollerata dal punto di vista emodinamico.

Quando una manovra di reclutamento riapre un numero significativo di aree polmonari si osserva un netto miglioramento della ossigenazione (4), quindi l’aumento del rapporto PaO2/FIO2 può essere un buon indizio dell’efficacia della manovra.

Come è andata a finire la storia di Daniela? Grazie probabilmente alla profonda ipotermia con cui è stata ritrovata, Daniela non ha avuto alcun apprezzabile danno neurologico residuo: ha recuperato in 24 ore la vigilanza, quindi più gradualmente i contenuti di coscienza che sono tornati pressochè normali nell’arco di 1 settimana. L’insufficienza respiratoria ha avuto una risoluzione lenta, ma si è riusciti ad estubarla con successo grazie anche ad un esteso utilizzo della ventilazione non invasiva dopo l’estubazione. Insomma, una bella storia con lieto fine.

Come sempre, concludiamo il post con una sintesi operativa:

1) le manovre di reclutamento alveolare possono però essere utili nelle prime fasi della ARDS in pazienti con danno polmonare diffuso ed ipossiemia persistente;

2) possono essere fatte con 40 secondi di CPAP a 40 cmH2O o 3 minuti di ventilazione a pressione controllata a 15 cmH2O e 25-30 cmH2di PEEP (pressione totale applicata 40-45 cmH2O);

3) in caso di ipotensione grave, sospendere la manovra senza rimpianti.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amivi di ventilab.

Bibliografia.

1) Fan E et al. Recruitment maneuvers for Acute Lung Injury. A systematic review. Am J Respir Crit Care Med 2008; 178: 1156-63

2) Guerin C et al. Efficacy and safety of recruitment maneuvers in acute respiratory distress syndrome. Ann Intensive Care 2011; 1:9

3) Constantin JMet al. Lung morphology predicts response to recruitment maneuver in patients with acute respiratory distress syndrome. Crit Care Med 2010; 38:1108-17

4) Grasso S et al. Effects of recruiting maneuvers in patients with acute respiratory distress syndrome ventilated with protective ventilatory strategy. Anesthesiology 2002; 96:795-802

5) Arnal JM et al. Optimal duration of a sustained inflation recruitment maneuver in ARDS patients. Intensive Care Med 2011; 37:1588-94

La ventilazione noninvasiva dopo l’estubazione: è davvero utile?

$
0
0

zebraLa ventilazione non invasiva è un’arma potente: come tutte le armi potenti può essere utile, ma può fare anche malissimo. Può migliorare o peggiorare l’outcome dei pazienti in relazione alla nostra capacità di utilizzarla correttamente. Per fare ventilazione noninvasiva in maniera efficace bisogna conoscerne molto bene limiti e potenzialità ed avere delle solide basi di ventilazione meccanica.

Nelle nostre Terapie Intensive estubiamo i pazienti che superano con successo il processo di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Una parte di questi pazienti però, una volta rimosso il tubo tracheale, va incontro ad una una insufficienza respiratoria nei primi giorni successivi all’estubazione, a volte così grave da richiedere una nuova intubazione.

La ventilazione non invasiva effettuata subito dopo l’estubazione anche nei pazienti senza segni di insufficienza respiratoria può prevenire il rischio di reintubazione? E può ridurre la mortalità ospedaliera?

Negli ultimi anni almeno 5 studi clinici (4 trial clinici randomizzati ed uno before-after)  hanno confrontato, nei pazienti estubati con successo, l’utilizzo profilattico della ventilazione non invasiva per prevenire l’insufficienza respiratoria post-estubazione (=ventilazione noninvasiva a tutti di routine) rispetto alla ossigenoterapia (vedi bibliografia). Una lettura critica di questi studi potrà aiutarci a trovare la miglior risposta possibile alle nostre domande.

Quali pazienti sono stati studiati? Quasi tutti gli studi hanno arruolato pazienti ventilati da oltre 48-72 ore e con fattori di rischio di fallimento dell’estubazione: anziani (> 65 anni), ipercapnici all’estubazione (PaCO2 > 45 mmHg),  con tosse debole, con scompenso cardiaco, con precedenti fallimenti di weaning, con elevata gravità complessiva, obesi (BMI > 35 kg/m2), con malattie polmonari croniche. Anche se ogni studio si concentrava su alcune di queste categorie di pazienti, possiamo trovare un denominatore comune: la fragilità . Tutti gli studi hanno ovviamente escluso gli individui con controindicazioni alla ventilazione non invasiva, tra le quali era sempre presente la mancata cooperazione da parte del paziente.

Le strategie a confronto. In tutti gli studi si confrontava il gruppo di pazienti che riceveva la ventilazione non invasiva profilattica con un gruppo di pazienti che veniva trattato di routine con la sola ossigenoterapia. In un paio di studi era previsto l’utilizzo della ventilazione non invasiva nei pazienti con ossigenoterapia in caso di insufficienza respiratoria.

Come veniva fatta la ventilazione non invasiva? Tutti gli studi hanno ventilato i pazienti con pressione di supporto, con un valore medio di supporto inspiratorio di circa 15 cmH2O, ed una PEEP mediamente di 5 cmH2O. Quindi una impostazione che privilegia la riduzione del lavoro inspiratorio del paziente con un basso livello di PEEP.

Per quanto tempo è stata fatta la ventilazione non invasiva? La ventilazione non invasiva preventiva è stata eseguita per il maggior tempo possibile nelle prime 24-48 ore dopo l’estubazione, quindi poteva essere proseguita in caso di necessità clinica.

I risultati. Solo 2 studi su 5 sono però riusciti a dimostrare una riduzione del numero dei pazienti che hanno dovuto essere reintubati nel gruppo trattato con ventilazione non invasiva: un risultato tutt’altro che chiaro ed univoco. I 4 studi con la maggior numerosità di pazienti non hanno inoltre dimostrato nessuna differenza sulla mortalità ospedaliera tra chi ha fatto ventilazione non invasiva e chi ha fatto ossigenoterapia. A mio parere, la ventilazione non invasiva profilattica diventa utile se riduce la reintubazione e, meglio ancora, la mortalità ospedaliera (le differenze nella mortalità in Terapia Intensiva o in quella a 90 giorni sono veramente poco significative, su questo argomento, se non sono coerenti con la mortalità ospedaliera: ne potremo eventualmente discutere se richiesto in qualche commento). Pertanto, a questa lettura, i risultati lasciano ampi dubbi sul fatto che la ventilazione non invasiva possa migliorare significativamente l‘outcome dei pazienti estubati.

Approfondiamo la lettura dei risultati al di là della significatività statistica ritrovata nei singoli studi (per definizione la statistica non dimostra ma offre probabilità: il nostro senso critico deve valere più del p value). Le percentuali di reintubazione nei pazienti con ventilazione non invasiva profilattica variano dal 5% al 11% nei diversi studi, mentre le percentuali di reintubazione nei pazienti con ossigenoterapia vanno da un minimo del 19% ad un massimo del 39%. Risulta evidente che in tutti gli studi sono stati intubati di meno i pazienti con ventilazione non invasiva profilattica. Mettendo insieme i pazienti dei 5 studi, si vede sono stati reintubati 26 pazienti su 263 (10%) con ventilazione non invasiva e 60 pazienti su 264 (23%) che hanno fatto ossigenoterapia. Su questi dati aggregati, sia il nostro senso critico che la statistica ci suggeriscono che la ventilazione non invasiva profilattica può ridurre il numero di pazienti reintubati rispetto alla ossigenoterapia post-estubazione (p=0.0001). Possiamo applicare lo stesso ragionamento alla mortalità ospedaliera: in tutti e 5 gli studi, il gruppo con ventilazione non invasiva profilattica ha sempre avuto una mortalità minore (tra lo 0% ed il 17%) di quello gestito con ossigenoterapia (dal 18% al 24%). I dati dei 5 studi studi messi insieme ci dicono che sono morti 33 pazienti con ventilazione non invasiva profilattica (13%) contro 58 (22%) con ossigenoterapia. Anche in questo caso, sia il buon senso che l’analisi statistica sui dati aggregati supportano l’ipotesi che la ventilazione non invasiva profilattica dopo l’estubazione possa ridurre la mortalità ospedaliera rispetto all’ossigenoterapia(p=0.006).

Come comportarsi concretamente nella pratica clinica? La revisione ragionata della letteratura finora disponibile può supportare questa sintesi delle nostre attuali conoscenze:

1) in tutti i pazienti fragili (ipercapnici, deboli, anziani, con malattie respiratorie croniche, obesi) reduci da almeno 2-3 giorni di intubazione, subito dopo l’estubazione si dovrebbe fare ventilazione non invasiva profilattica nei pazienti cooperanti. In particolare, i pazienti con ipercapnia all’estubazione (PaCO2 > 45 mmHg) sono quelli con le maggiori evidenze di beneficio;

2) la ventilazione non invasiva dovrebbe essere fatta con un supporto inspiratorio sufficiente a garantire un buon pattern respiratorio, con una PEEP attorno ai 5 cmH2O. Aumenti di PEEP sono giustificati in caso di SaO2 < 90%;

3) la ventilazione non invasiva dovrebbe essere fatta per il maggior tempo possibile per 1 o 2 giorni, quindi proseguita solo in caso di necessità clinica.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.

- Nava S et al. Noninvasive ventilation to prevent respiratory failure after extubation in high-risk patients. Crit Care Med 2005; 33:2465–70
- Ferrer M et al. Early noninvasive ventilation averts extubation failure in patients at risk. A randomized trial. Am J Respir Crit Care Med 2006; 173:164–170
- El Solh AA et al. Noninvasive ventilation for prevention of post-extubation respiratory failure in obese patients. Eur Respir J 2006; 28: 588-95
- Ferrer M et al. Non-invasive ventilation after extubation in hypercapnic patients with chronic respiratory disorders: randomised controlled trial. Lancet 2009; 374:1082-8
- Ornico SRP et al. Noninvasive ventilation immediately after extubation improves weaning outcome after acute respiratory failure: a randomized controlled trial. Critical Care 2013, 17:R39

Pulse pressure variation: quando non fidarsi è meglio…

$
0
0

tntUno dei problemi che spesso dobbiamo affrontare nel paziente critico è il trattamento dell’ipotensione. L’espansione volemica con fluidi è spesso la prima mossa che facciamo, ma sappiamo che dobbiamo evitare una somministrazione di fluidi non necessari se vogliamo che i nostri pazienti si svezzino rapidamente e muoiano di meno (1-4). Non sempre la decisione è semplice, per questo si sta affermando la misurazione della Pulse Pressure Variation (spesso abbreviata come PPV)cioè della variazione di pressione pulsatoria (pressione arteriosa sistolica – pressione arteriosa diastolica) tra inspirazione ed espirazione. Il motivo che sta portando al successo questo metodo è che sembra accurato e quasi non invasivo, almeno per un paziente critico (è infatti sufficiente l’incannulamento di un vaso arterioso).

Vediamo cosa è la Pulse Pressure Variation e cerchiamo di capire se e quando ci può essere veramente utile.

La Pulse Pressure Variation.

L’aumento della pressione intratoracica durante l’inspirazione in ventilazione meccanica determina una riduzione del precarico (cioè del volume a fine diastole) sia del ventricolo destro che del ventricolo sinistro (vedi post del 30/04/2013 e del 15/12/2013). Quindi l’insufflazione meccanica può essere considerata un vero e proprio test di riduzione del precarico che si ripete ad ogni ciclo respiratorio. La legge di Frank-Starling ci dice che lo stroke volume (la gittata pulsatoria) aumenta all’aumentare del precarico e, ovviamente, si riduce al ridursi del precarico. La relazione tra stroke volume e volume ventricolare di fine diastole non è però lineare ma tende ad appiattirsi con l’aumentare del precarico. Spieghiamo le implicazioni della legge di Frank-Starling commentando la curva riprodotta qui sotto.

frank-starling

Figura 1.

Se un paziente con un elevato volume di fine diastole subisce una riduzione del precarico (passa ad esempio da A a B), si osserva una lieve riduzione dello stroke volume. Se invece la stessa riduzione del precarico avviene ad un basso volume di fine diastole (ad esempio da C a D), la consensuale riduzione dello stroke volume è molto maggiore.

Per questo motivo, quando l’inspirazione durante la ventilazione meccanica riduce il precarico, la consensuale riduzione dello stroke volume sarà maggiore nei pazienti con basso precarico rispetto a quelli con un elevato precarico. La variazione di stroke volume durante il ciclo ventilatorio è definita Stroke Volume Variation (normalmente abbreviata in SVV).

La variazione di stroke volume indotta dall’insufflazione meccanica ha come conseguenza la variazione di pulse pressure (pressione pulsatoria) (5). In numerosi studi clinici si è evidenziato che i pazienti che hanno una elevata Pulse Pressure Variation (superiore al 12-13%) sono spesso in grado di aumentare la portata cardiaca dopo espansione volemica (6).

In altre parole, se il test di riduzione del precarico (cioè ogni inspirazione a pressione positiva)  si associa ritmicamente ad una elevata Pulse Pressure Variation possiamo dedurre che il paziente ha un precarico sulla parte più ripida della curva di Frank-Starling (ad esempio, nella figura 1, un paziente che va da C a D). Viceversa se l’insufflazione determina una piccola Pulse Pressure Variation, possiamo ipotizzare che il paziente sia sulla parte meno ripida della curva di Frank-Starling (ad esempio, nella figura 1, un soggeto che va da A a B).

Perchè non credere alla Pulse Pressure Variation nel paziente critico.

Forse un po’ fuori dal coro, sono molto scettico sulla possibilità di utilizzare la Pulse Pressure Variation per guidare la decisione di somministrare fluidi nel paziente critico (in ambito anestesiologico forse potrebbe avere qualche indicazione in più). A mio parere questo uso della Pulse Pressure Variation ha un grave peccato originale: è infatti la risposta (forse) giusta alla domanda sbagliata.

Poniamoci di fronte ad un paziente critico ipoteso. Ricordiamo la classica formula PA= CO x SVR: ci dice che la riduzione della pressione arteriosa (PA) può essere associata alla riduzione della portata cardiaca (CO) o delle resistenze vascolari sistemiche (SVR) (o di entrambe). In caso di ipotensione arteriosa dovremmo quindi chiederci sempre se sia ridotta la portata cardiaca (cioè la quantità di sangue pompata dal cuore in un minuto, che è uguale al prodotto di frequenza cardiaca e stroke volume)se la portata cardiaca fosse bassa (tradizionalmente si definisce bassa portata un indice cardiaco inferiore a 2.2 l.min-1.m-2), per prima cosa dovremmo cercare di aumentarla per risolvere l’ipotensione. Se la portata cardiaca fosse invece normale o alta per trattare l’ipotensione dovremmo in prima istanza aumentare le resistenze vascolari.

Date queste premesse, dovremmo concludere che in tutti i casi in cui non serve aumentare la portata cardiaca, non dovremmo pensare di aumentare il precarico e quindi la Pulse Pressure Variation non ci serve.

Restano tutti i pazienti in bassa portata: in questi una Pulse Pressure Variation con un valore elevato ci suggerisce che probabilmente l’aumento del precarico consente di incrementare la portata cardiaca (poichè ci dovremmo trovare, come abbiamo visto sopra,  sulla parte ripida della curva di Frank-Starling). L’aumento di precarico si ottiene (a parità di pressione intratoracica) aumentando lo stressed volume, cioè quella parte di volume ematico che genera pressione nei vasi venosi che condizionano il ritorno venoso  (vedi post del 30/04/2013). L’aumento dello stressed volume può essere ottenuto in 2 modi: somministrando un vasocostrittore per ridurre la compliance venosa (quindi la parete dei vasi venosi comprime di più la stessa quantità si sangue) o somministrando fluidi per aumentare il volume intravascolare (quindi un maggior volume ematico esercita più pressione sulla parete dei vasi venosi). E’ ragionevole pensare che il vasocostrittore sia preferibile nei pazienti edematosi e/o in assenza di una riduzione del volume ematico mentre la somministrazione di fluidi possa essere di prima scelta in tutte le condizioni in cui vi sia stata una riduzione del volume ematico. La capacità della noradrenalina di aumentare la portata cardiaca è supportata sia da un razionale fisiologico, come abbiamo appena visto,  che da numerosi dati clinici (7-10).

In sintesi, una Pulse Pressure Variation elevata ci suggerisce di fare fluidi solo nei pazienti in bassa portata che hanno avuto una riduzione del volume ematico. In tutti gli altri casi di elevata Pulse Pressure Variation (alta portata o bassa portata con edema/vasodilatazione), la noradrenalina dovrebbe essere considerata nel trattamento del paziente critico ipoteso. Come possiamo constatare, la valutazione della Pulse Pressure Variation disgiunta dalla valutazione della portata cardiaca non ha molto senso.

E se la Pulse Pression Variation fosse bassa (cioè <12%)? Posso escludere la necessità di somministrare fluidi? Assolutamente no, dato che quasi la metà dei pazienti con bassa Pulse Pressure Variation aumenta la portata cardiaca dopo un’espansione volemica (11). Questo dato è facile da comprendere se consideriamo che l’insufflazione riduce lo stroke volume tanto più quanto più aumenta la pressione intratoracica. L’aumento di pressione intratoracica a sua volta dipende dal volume corrente e dal rapporto tra elastanza polmonare (calcolata sulla pressione transpolmonare) ed elastanza dell’apparato respiratorio (calcolata sulla pressione delle vie aeree). In altre parole, nei pazienti con basso volume corrente (ad esempio < 8 ml/kg, come nella ventilazione protettiva…) o prevalenza della rigidità polmonare sulla rigidità della gabbia toracica, l’aumento di pressione intratoracica (=pleurica) indotta dall’insufflazione potrebbe essere insufficiente per influenzare significativamente il precarico. Ed ovviamente la conseguenza è una bassa Pulse Pressure Variation.

Da ricordare infine un altro limite della Pulse Pressure Variation: essa ha un senso solo nei pazienti senza aritimie e che non presentano alcun segno di attività respiratoria spontanea, cosa che accade piuttosto raramente nei pazienti critici (12).

_°_°_°_°_°_

Vediamo di tirare le somme di tutto ciò che abbiamo detto:

1) l’uso della Pulse Pressure Variation deve essere limitato a pazienti senza aritimie, senza attività respiratoria spontanea (nemmeno il triggeraggio del ventilatore), preferibilmente ventilati con un volume corrente non inferiore a 8 ml/kg;

2) in caso di elevata Pulse Pressure Variation è ragionevole somministrare fluidi solo nei pazienti non edematosi in bassa portata

3) in caso di portata cardiaca normale-alta o di edema (o altri segni di sovraccarico di fluidi) è preferibile aumentare la pressione arteriosa con la noradrenalina;

4) se, dopo un primo approccio empirico, il quadro clinico non migliora, non continuare a lavorare alla cieca ma fatti guidare dal monitoraggio emodinamico per misurare la portata cardiaca.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Sakr Y at al. High tidal volume and positive fluid balance are associated with worse outcome in acute lung injury. Chest 2005; 128:3098-108
2) Upadya A et al. Fluid balance and weaning outcomes. Intensive Care Med 2005, 31:1643-1647
3) Wiedemann HP et al. Comparison of two fluidmanagement strategies in acute lung injury. N Engl J Med 2006; 354:2564-2575
4) Stewart RM et al. Less is more: improved outcomes in surgical patients with conservative fluid administration and central venous catheter monitoring. J Am Coll Surg 2009, 208:725-735
5) Thiele RH et al. Arterial waveform analysis for the anesthesiologist: past, present, and future concepts. Anesth Analg 2011; 113:766-76
6) Marik PE et al. Dynamic changes in arterial waveform derived variables and fluid responsiveness in mechanically ventilated patients: A systematic review of the literature. Crit Care Med 2009; 37:2642-7
7) Kozieras J et al. Influence of an acute increase in systemic vascular resistance on transpulmonary thermodilution-derived parameters in critically ill patients. Intensive Care Med 2007:33:1619-23
8) Persichini R et al. Effects of norepinephrine on mean systemic pressure and venous return in human septic shock. Crit Care Med 2012; 40:3146-53
9) Monnet X et al. Norepinephrine increases cardiac preload and reduces preload dependency assessed by passive leg raising in septic shock patients. Crit Care Med 2011; 39:689-94
10) Hamzaoui O et al. Early administration of norepinephrine increases cardiac preload and cardiac output in septic patients with life-threatening hypotension. Crit Care 2010; 14:R142
11) Natalini G et al. Arterial versus plethysmographic dynamic indices to test responsiveness for testing fluid administration in hypotensive patients: a clinical trial. Anesth Analg 2006; 103:1478 –84
12) Natalini G et al. Prediction of arterial pressure increase after fluid challenge. BMC Anesthesiology 2012; 12:3

Ventilazione meccanica in anestesia: tra bassi volumi correnti e PEEP

$
0
0

Gulp_1Su Lancet di giugno sono state pubblicate le conclusioni dello studio multicentrico controllato randomizzato PROVHILO  (PROtective Ventilation using HIgh versus LOw PEEP). Lo scopo é testare l’ipotesi per cui una strategia ventilatoria con PEEP elevate e manovre di reclutamento durante anestesia generale per interventi laparotomici protegge da complicanze polmonari postoperatorie pazienti a rischio per queste complicazioni. Tra febbraio 2011 e gennaio 2013 in 30 centri sono stati reclutati 900 pazienti randomizzati in due gruppi…

 

Il DISEGNO SPERIMENTALE prevedeva il reclutamento di pazienti da sottoporre a chirurgia addominale laparotomica con rischio medio – alto (secondo lo score ARISCAT) di complicanze polmonari postoperatorie, escludendo quelli sottoposti a laparoscopia, con BMI > 40 o con grave cardiopatia o pneumopatia preoperatoria. 447 pazienti sono stati arruolati nel gruppo a PEEP “alta” e manovre di reclutamento, 453 in quello con PEEP “bassa” senza manovre di reclutamento.

Quale risultato principale gli sperimentatori hanno voluto verificare l’incidenza di complicanze polmonari postoperatorie nei cinque giorni successivi all’intervento; secondariamente l’incidenza di complicanze intraoperatorie e l’insorgenza di complicanze extrapolmonari successivamente alla quinta giornata postoperatoria.

Il protocollo prevedeva ventilazione in volume controllato a 8 ml/Kg/PBW (Predicted Body Weight), FiO2 ≥ 40% con l’obiettivo di SpO2 ≥ 92% , frequenza respiratoria per mantenere ETCO2 tra 35 e 45 mmHg, manovre di reclutamento immediatamente dopo l’intubazione, dopo ogni disconnessione dal ventilatore e immediatamente prima dell’estubazione. I pazienti del braccio PEEP “bassa” (o strategia convenzionale) prevedevano una ventilazione con 8 ml/Kg/PBW, PEEP ≤ 2 cm H2O senza reclutamento.

11 pazienti (2%) nel gruppo “alta” PEEP hanno avuto bisogno di una procedura di “salvataggio” per comparsa di desaturazione, realizzata (secondo una tabellina) attraverso una riduzione della PEEP e/o incremento della FiO2 di contro a 34 (8%) nel gruppo convenzionale (per il quale la procedura prevedeva incremento della PEEP e della FiO2).

I RISULTATI  hanno evidenziato l’assenza di differenze negli outcome dei due gruppi: il 40% dei pazienti nel gruppo PEEP ed il 39% di quelli con strategia convenzionale hanno riportato complicanze nei primi 5 giorni postoperatori; il 4% ed il 5% rispettivamente hanno richiesto ventilazione meccanica nello stesso periodo.

Differenze statisticamente significative sono emerse nel fabbisogno di liquidi intraoperatori e nella necessità di utilizzare farmaci vasopressori, entrambi più elevati nel gruppo PEEP alta.

L’analisi multivariata su due gruppi di pazienti (con complicanze vs senza complicanze) mostra che età, durata dell’intervento chirurgico, necessità di infusioni intraoperatorie elevate o perdite ematiche significative, costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo di complicanze polmonari postoperatorie.

CONCLUSIONI Nei pazienti con rischio medio – elevato di sviluppare complicanze polmonari postoperatorie una strategia ventilatoria caratterizzata da bassi volumi correnti con PEEP “alta” e manovre di reclutamento non comporta vantaggi rispetto ad una ventilazione convenzionale con 8 ml/Kg/PBW, PEEP assente, nessuna manovra di reclutamento (1).

 

COMMENTO -  Quali risvolti possiamo trasferire nella nostra pratica clinica?

Resta da stabilire, nella ventilazione protettiva del polmone “sano”, il valore adeguato di PEEP; di contro, anche questo studio, ci conferma gli effetti emodinamici che la PEEP può produrre tanto maggiori e più frequenti quanto maggiore è il suo valore. Più i volumi correnti utilizzati sono bassi più la PEEP è utile per evitare il danno da chiusura e riapertura degli alveoli e contrastare la formazione di atelettasie declivi conseguenti all’induzione dell’anestesia. Facciamo attenzione quando applichiamo la PEEP in pazienti in precario equilibrio emodinamico. L’applicazione di un valore di PEEP “a priori” conferma quanto già visto in studi su pazienti con ARDS (2) che hanno fallito nel dimostrare la superiorità, in termini di morbilità e mortalità, di un arbitrario valore di PEEP, e l’importanza invece della sua personalizzazione (3).

Ci sono evidenze sperimentali, con il dosaggio di markers biochimici (4) e con outcome clinici (5) (6), che l’utilizzo, nel polmone sano, di bassi volumi correnti e PEEP è protettivo rispetto a volumi correnti “tradizionali” senza PEEP. La ventilazione a bassi volumi correnti con bassi valori di PEEP è praticamente coincidente con la respirazione fisiologica e, dal momento che nessuno studio ha mai dimostrato il beneficio di una ventilazione ad alti volumi correnti, viene da chiedersi perché non usare sempre, anche e soprattutto nel polmone sano, una ventilazione artificiale che sia la più fisiologica possibile. Il fatto che anche il presente studio utilizzi in entrambi i gruppi una ventilazione  a bassi volumi correnti sembra quasi dirci che questo può ormai considerarsi uno standard in sala operatoria.

Evidenze sperimentali, con il dosaggio di markers infiammatori, ci dicono che più lungo è il periodo di ventilazione del polmone sano maggiore è l’effetto protettivo della ventilazione  a bassi volumi correnti. Allo stesso modo questa scelta produce meno complicanze postoperatorie quanto più i pazienti sono compromessi in termini di gravità complessiva o nel caso di chirurgia polmonare, cardiaca, per neoplasia.

Personalmente quando sono in sala operatoria ventilo sempre a bassi volumi correnti (~ 7 – 8 ml/Kg/peso corporeo ideale) con un livello di PEEP minimo “personalizzato” (obeso / non obeso; Laparoscopia / laparotomia; trendelemburg o no; ecc.) evitandola quando è presente grave instabilità emodinamica.

 

Vi invito a rileggere i precedenti post di argomento simile taggando su “anestesia”. Lo studio è sicuramente stimolante e mi aspetto vostri commenti e/o domande cui sarò ben lieto di rispondere.

 

Bibliografia.

  1.  The PROVE Network Investigators. High versus low positive end-expiratory pressure during general anaesthesia for open abdominal surgery (PROVHILO trial): a  multicentre randomised controlled trial.
  2. Brower RG et al. Higher versus lower positive end-expiratory pressures in patients with the acute respiratorydistress syndrome. ARDS Clinical Trials Network. N Engl J Med. 2004 Jul 22;351(4):327-36.  June 1, 2014 http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(14)60416-5
  3. Villar J et al. A high positive end-expiratory pressure , low tidal volume ventilatory strategy improves outcome in persistent acute respiratory distress syndrome: A randomized, controlled trial. Crit Care Med 2006;34:1311-1318.
  4.  Ranieri M. et al. Effect of mechanical ventilation on Inflammatory Mediators in Patients with Acute Respiratory Distress Syndrome. JAMA 1999; 282:54-61
  5. Futier E, Constantin JM, Paugam-Burtz C, et al, for the IMPROVE Study Group. A trial of intraoperative low-tidal-volume ventilation in abdominal surgery. N Engl J Med 2013; 369: 428–37   Severgnini P, Selmo G, Lanza C, et al. Protective mechanical ventilation during general anesthesia for open abdominal surgery improves postoperative pulmonary function. Anesthesiology 2013; 118: 1307–21.

Weaning e tracheotomia: qualche utile accorgimento.

$
0
0

deflated_balloonAbbiamo già affrontato in passato le tappe del processo di svezzamento (o weaning) dalla ventilazione meccanica (ad esempio nel post del 17/03/2013). Oggi ci occuperemo di un aspetto particolare: la cuffia della tracheotomia durante lo svezzamento dalla ventilazione meccanica.

La tracheotomia è sempre più spesso una tappa fondamentale per raggiungere lo svezzamento dalla ventilazione meccanica nei pazienti con weaning prolungato. Ricordiamo che è stato (arbitrariamente) definito come weaning prolungato il fallimento di almeno tre tentativi di weaning o la necessità di più di 1 settimana tra il primo tentativo di respiro spontaneo e lo svezzamento (1).

La tracheotomia può facilitare lo svezzamento dalla ventilazione meccanica riducendo almeno due componenti del lavoro respiratorio: 1) il carico elastico, diminuendo lo spazio morto e di conseguenza la ventilazione minuto);  2) il carico resistivo, diminuendo la lunghezza del tubo tracheale (vedi post del 23/06/2010). Non possiamo escludere che questo possa portare anche ad una riduzione del carico soglia nei pazienti con auto-PEEP (vedi post del 23/06/2010).

Inoltre la tracheotomia permette molto facilmente di passare dalla respirazione spontanea alla ventilazione assistita e viceversa: il paziente può essere ventilato ogni volta che ha segni di fatica  e messo in respiro spontaneo tutte le volte che è in grado di farlo. Quest’ultimo punto è, a mio parere, un elemento chiave per riconquistare l’autonomia dei muscoli respiratori: infatti  può consentire di limitare sia la fatica e l’eccessivo riposo dei muscoli respiratori, evitandone quindi la disfunzione (=debolezza) indotta dalla ventilazione meccanica (2).

figura 1

figura 1

Dopo questa premessa, vediamo come si può gestire la cuffia della tracheocannula durante il weaning dalla ventilazione meccanica. A mio parere è opportuno scuffiare la tracheocannula durante le fasi di respiro spontaneo nei pazienti senza disfagia (vedi sotto). Quando la cannula è cuffiata, l’aria può entrare nella trachea solo attraverso la cannula tracheale perchè la cuffia isola la trachea dalle vie aeree superiori (figura 1). Quando la cannula è scuffiata, il passaggio di aria può avvenire anche attraverso le vie aeree naturali perchè la trachea e le vie aeree superiori tornano a comunicare (figura 2). In questo modo l’inspirazione del paziente viene ulteriormente facilitata: il volume corrente aumenta, lo sforzo inspiratorio si riduce un poco e l’efficienza della ventilazione migliora (2).

figura 2

figura 2

Certamente non dobbiamo aspettarci miglioramenti miracolosi in tutti i pazienti che scuffiano la cannula tracheale. Possiamo però ragionevolmente pensare che questa possa essere una procedura efficace soprattutto nei pazienti deboli con weaning difficile. La scuffiatura della tracheocannula può rivelarsi particolarmente utile anche nei pazienti in cui l’estremità distale della cannula tende ad andare contro la parete tracheale (come ogni tanto si evidenzia in fibroscopia), così come quando il lume della cannula si ostruisce in maniera rilevante con secrezioni. In queste condizioni il respiro spontaneo può essere veramente difficile e la scuffiatura della cannula può facilitarlo enormemente.

L’aspirazione nelle vie aeree di materiali provenienti dal cavo orale o dallo stomaco è un argomento a cui noi rianimatori siamo molto sensibili. Questo può favorire la comparsa di polmoniti da aspirazione e rimettere in discussione lo svezzamento raggiunto fino a quel momento. Pertanto per scuffiare con sicurezza una tracheocannula, è opportuno verificare regolarmente la presenza di disfagia.

La presenza di disfagia può essere pragmaticamente valutata “sporcando” il cavo orale del paziente con blue di metilene. E’ sufficiente bagnare una spugnetta per igiene del cavo orale con mezza fiala di blue di metilene e strofinarla sopra e sotto la lingua, sul palato duro, su guance e vestiboli. Se entro le 24 ore successive non si osserva alcuna traccia di blue di metilene nelle secrezioni tracheali, possiamo ragionevolmente escludere una disfagia clinicamente rilevante e mantenere la cannula scuffiata (4). Nella mia Terapia Intensiva questa procedura è ormai una prassi routinaria, seguita (se il test è negativo) nei giorni successivi dalla valutazione della disfagia anche alla deglutizione di diverse consistenze alimentari (semisolidi, solidi, liquidi). Questa pratica quotidiana si è consolidata anche grazie allo splendido gruppo infermieristico del reparto (che ha acquisito la competenza della valutazione clinica della disfagia) ed  al costante confronto con Chiara Mulè, brava fisiatra (ed amica) che ci ha già regalato un bel post sullo svezzamento dalla tracheocannula nel paziente con cerebrolesione grave. Certamente la valutazione della disfagia può essere molto più articolata e complessa e rientra nella competenza di logopedisti e fisiatri. Quello che ho proposto in questa sede è però quello che si può già concretamente fare nella fase acuta del paziente in Terapia Intensiva, dove talvolta logopedisti e fisiatri possono trovarsi a disagio.

Dobbiamo infine ricordare che la scuffiatura della tracheocannula favorisce di per sè il miglioramento della deglutizione (5) e può consentire al paziente la fonazione con una semplice valvola fonetica.

Seguendi questo approccio, nel momento in cui il paziente sarà svezzato dalla ventilazione meccanica potremo già essere pronti a rimuovere la tracheocannula e concludere definitivamente il processo di weaning.

Come sempre, sintetizziamo i concetti:

1) la tracheotomia è uno standard per lo svezzamento prolungato;

2) quando un paziente tracheotomizzato inizia a respirare spontaneamente, durante i periodi di respiro spontaneo la cannula andrebbe scuffiata in assenza di disfagia;

3) possiamo valutare la disfagia sporcando il cavo orale con blue di metilene ed osservando se si colorano di blue le secrezioni bronchiali.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia.

1) Boles JM et al. Weaning from mechanical ventilation. Eur Respir J 2007; 29:1033-5

2) Jaber S et al. Ventilator-induced diaphragmatic dysfunction – human studies confi rm animal model findings! Jaber et al. Crit Care 2011, 15:206

3) Ceriana P et al. Physiological responses during a T-piece weaning trial with a deflated tube. Intensive Care Med 2006; 32: 1399-403

4) Bargellesi S et al. La gestione della cannula tracheostomica nelle persone con grave cerebrolesione acquisita: consenso a un protocollo condiviso.  MR 2013; 27:9-16

5) Amathieu R et al. Influence of the cuff pressure on the swallowing reflex in tracheostomized intensive care unit patients. Br J Anaesth 2012; 109:578-83


PEEP intrinseca (PEEPi): quando e come trattarla efficacemente (parte prima).

$
0
0

puntisneriLa PEEP intrinseca (PEEPi) è presente in molti pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. E’ sempre un problema medico rilevante? Ridurre o eliminare la PEEP intrinseca deve essere un nostro obiettivo terapeutico?

Esistono molti atti terapeutici per diminuire la PEEP intrinseca: ridurre il volume corrente e/o la frequenza respiratoria e/o la ventilazione minuto, aumentare il tempo espiratorio, posizionare il paziente in posizione seduta, somministrare broncodiltatori. Quali tra questi trattamenti è più efficace per ridurre la PEEP intrinseca e quali hanno un effetto trascurabile?

In questo post e nel prossimo post cercheremo di rispondere a queste domande. Come sempre cercheremo risposte concrete che possano esserci utili nella nostra pratica clinica.

Molti medici che utilizzano la ventilazione meccanica sanno ormai identificare la presenza di PEEP intrinseca a colpo d’occhio. Come si può vedere nella figura 1, la presenza di PEEP intrinseca si può identificare con l’interruzione del flusso espiratorio prima che questo arrivi a zero (freccia rossa) e quindi prima che inizi l’inspirazione successiva (freccia bianca).

autopeep

Figura 1.

Attenzione però a interpretare correttamente questo segno! Non è assolutamente vero che maggiore è lo “scalino” sulla traccia di flusso a fine espirazione, maggiore è la PEEP intrinseca. Non è raro osservare pazienti che hanno quasi (ma non completamente) raggiunto lo zero flusso espiratorio all’inizio dell’inspirazione successiva, che presentano elevati valori di PEEP intrinseca.

Vediamo l’esempio nella figura 2.

Figura 2.

Figura 2.

In questa paziente è quasi impercettibile la persistenza di flusso a fine espirazione, eppure ha 8 cmH2O di PEEP intrinseca (tutta la PEEP totale è intrinseca essendo ventilata senza PEEP). Lo vediamo bene nell’occlusione di fine espirazione:

Figura 3.

Figura 3.

Questo comportamento è tipico dei pazienti con flow limitation (vedi post del 04/06/22012) che, dopo il picco iniziale, hanno un flusso espiratorio molto basso. Quindi se sviluppano PEEP intrinseca (che di norma hanno) vediamo uno “scalino“ molto piccolo sul flusso a fine espirazione, proprio perchè viene amputato un flusso espiratorio già molto basso a causa della flow limitation.

La PEEP intrinseca spesso viene vista come un nemico da combattere in tutti modi: è sufficiente diagnosticarla per scatenare un repertorio di interventi terapeutici. A mio modo di vedere spesso la PEEP intrinseca è solamente un segno clinico.

La PEEP intrinseca è infatti la risposta compensatoria del nostro apparato respiratorio quando non è possibile l’espirazione completa del volume corrente nel tempo espiratorio a disposizione. Analizziamo la figura 4.

zeep_occlusioni

Figura 4.

In questa figura sono mostrate le occlusioni a fine espirazione e fine inspirazione del paziente di cui abbiamo mostrato le curve di pressione e flusso nella figura 1. Come abbiamo visto, il paziente ha certamente PEEP intrinseca ed è proprio grazie ad essa che riesce ad espirare tutto il volume corrente (come si vede indicato dalla freccia 1, il volume corrente ritorna a zero alla fine dell’espirazione).

Analizziamo insieme il fenomeno. L’espirazione termina in corrispondenza della linea verticale tratteggiata arancione, che segna l’inizio dell’occlusione delle vie aeree a fine espirazione: in questo punto la pressione è sulla linea dello zero perchè la PEEP è 0 cmH2O. Subito dopo l’occlusione delle vie aeree a fine espirazione, la pressione delle vie aeree aumenta a 5 cmH2O. Questa è la PEEP intrinseca, una pressione presente all’interno del polmone, invisibile guardando la pressione delle vie aeree (proprio perchè è nel polmoni e non nel ventilatore), ma ben evidente durante le occlusioni delle vie aeree (quando si ferma il ventilatore meccanico e lo si mette in comunicazione statica con i polmoni).

L’inspirazione aggiunge pressione nei polmoni al di sopra della PEEP intrinseca, che funziona come un gradino sopra il quale “viene fatto salire” il volume corrente. Nel nostro paziente si vede che la pressione di plateau (Pplat) dopo l’occlusione di fine inspirazione (che inizia dopo la linea verticale tratteggiata verde) è di 13 cmH2O. Questa pressione è la somma dei 5 cmH2O di PEEP intrinseca e di altri 8 cmH2O sviluppati dal volume corrente introdotto con l’inspirazione.

Quando inizia l’espirazione, la forza che spinge l’aria fuori dai polmoni è data dalla differenza di pressione tra gli alveoli a fine inspirazione (che stimiamo con la pressione di plateau) e la pressione delle vie aeree, che è uguale al valore di PEEP, nel nostro caso 0 cmH2O. Quindi la pressione che genera il flusso espiratorio è in questo caso di 13 cmH2O. Grazie alla PEEP intrinseca. Infatti se non vi fosse PEEP intrinseca, la pressione di plateau sarebbe di 8 cmH2O (solo quelli generati dal volume corrente) e quindi il flusso espiratorio sarebbe inferiore perchè sospinto solamente da 8 cmH2O invece che da 13 cmH2O. Questo è quanto che succede al primo respiro quando iniziamo la ventilazione: questi 8 cmH2O non sono sufficienti a generare un flusso espiratorio che consenta di espirare tutto il volume corrente. Quindi il secondo respiro inizia avendo intrappolato un po’ di volume e quindi con un po’ di PEEP intrinseca che aumenterà quindi il flusso espiratorio. Questo processo si ripete di solito per 2-3 respiri, aumentando gradualmente la PEEP intrinseca fino a quando la differenza di pressione tra plateau inspiratorio e vie aeree produce il flusso espiratorio necessario e sufficiente ad espirare tutto il volume corrente. Nulla di più e nulla di meno. (Il flusso espiratorio può essere ulteriormente aumentato dalla concomitante una riduzione delle resistenze delle vie aeree che in alcuni pazienti può manifestarsi con l’aumento del volume polmonare legato all’iperinflazione dinamica.)

Come tutte le risposte compensatorie dell’organismo, anche la PEEP intrinseca può portare ad alcuni svantaggi che però diventano clinicamente rilevanti solo in alcune circostanze. La PEEP intrinseca (come anche la PEEP esterna) potrebbe ridurre la portata cardiaca, mettere il polmone a rischio di sovradistensione a fine inspirazione. Potrebbe inoltre aumentare il lavoro respiratorio ed eventualmente ridurre l’efficienza dei muscoli respiratori quando il paziente è in ventilazione assistita.

Se questi sono gli effetti potenzialmente sfavorevoli della PEEP intrinseca, possiamo capire quando temerli. La PEEP intrinseca non è un problema emodinamico quando non vi sono problemi emodinamici. E’ lapalissiano, ma è così: in un paziente normoteso senza amine non devo preoccuparmi se vi è un po’ di PEEP intrinseca (perlomeno per questo aspetto). E nei pazienti con shock, la PEEP intrinseca potrebbe essere un problema in caso di bassa portata secondaria a ipovolemia o scompenso cardiaco destro. Al contrario la PEEP intrinseca non dovrebbe nuocere (dal punto di vista emodinamico) ai pazienti con scompenso cardiaco sinistro.

La stress dovuto alla sovradistensione polmonare può normalmente essere temuto quando si superano i 25-30 cmH2O di pressione di plateau. Quando la pressione di plateau è al di sotto di questi valori, la PEEP intrinseca non è un problema per lo stress del polmone e quindi non necessita di essere ridotta per prevenire questo problema che non esiste.

Non farei nemmeno un dramma dell’impatto di bassi valori di PEEP intrinseca sul lavoro respiratorio: spesso sono un falso problema. I nostri pazienti durante il weaning devono avere un proprio lavoro respiratorio. Se la PEEP intrinseca contribuisce con pochi cmH2O al lavoro respiratorio, spesso possiamo comunque mantenere il lavoro respiratorio totale a livelli accettabili con una buona assistenza inspiratoria (=pressione di supporto): in questo modo si minimizza il lavoro respiratorio dopo il triggeraggio, lasciando  il carico soglia come componente principale del lavoro respiratorio. E ricordarsi di mantenere una piccolo valore di PEEP esterna.

In linea di massima mi sento di poter dire che una PEEP intrinseca inferiore a 5 cmH2O difficilmente diventa un problema serio.

Ma quando la PEEP intrinseca è o potrebbe essere un problema, quali sono le cose più efficaci che possiamo fare per ridurla? L’articolata risposta a questa domanda sarà l’argomento del prossio post.

Nel frattempo vediamo di ricapitolare i punti più importanti che abbiamo discusso oggi:

1) l’interruzione del flusso espiratorio è una valutazione qualitativa della PEEP intrinseca e non quantitativa. Ci fa intuire se la PEEP intrinseca è presente o meno, non ci dice nulla sulla sua entità.

2) la PEEP intrinseca è semplicemnte una risposta compensatoria dell’apparato respiratorio che consente di espirare tutto il volume corrente quando il tempo espiratorio non è sufficiente. Si sviluppa solo quella PEEP intrinseca necessaria e sufficiente per raggiungere questo scopo. Pertanto deve essere vista principalmente come un segno clinico.

3) la PEEP intrinseca può diventare un problema di per sè nei pazienti con shock ipovolemico, scompenso cardiaco destro, quando la pressione di plateau è maggiore di 25-30 cmH2O.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

PEEP intrinseca (PEEPi): quando e come trattarla efficacemente (parte seconda).

$
0
0

reminder-take-a-deep-breathNel post precedente abbiamo lasciato in sospeso la domanda: quali sono i trattamenti più efficaci nel ridurre la PEEP intrinseca e quali invece hanno probabilmente un effetto trascurabile?

La risposta a questa domanda è più facile se si conoscono le cause che incidono maggiormente, dal punto di vista quantitativo, nella formazione della PEEP intrinseca. Sappiamo, ad esempio, che sia l’aumento del volume corrente che quello delle resistenze delle vie aeree possono contribuire alla formazione della PEEP intrinseca: ma quale di queste due cause aumenta di più la PEEP intrinseca? Se rispondessimo a questa domanda, potremmo capire se sarà più efficace la somministrazione di salbutamolo o la riduzione del volume corrente nel trattamento di un paziente con PEEP intrinseca. Ventilab ha dato il suo originale contributo nel dare una risposta a questa domanda.

Circa un anno e mezzo fa avevo chiesto un aiuto alla tribù di ventilab per condurre uno studio multicentrico su iperinflazione dinamica e flow limitation (vedi post del 25/11/2012). Undici Terapie Intensive (dal Piemonte al Friuli, dalla Lombardia alla Campania) hanno aderito all’iniziativa, lo studio si è concluso e speriamo possa essere presto pubblicato: ovviamente agli amici di ventilab spetta di diritto l’anteprima mondiale dei risultati più significativi di questo studio.

In questo studio, che si è svolto su 186 pazienti con PEEP intrinseca in ventilazione controllata, abbiamo analizzato le relazioni quantitative tra la PEEP intrinseca e le sue possibili cause (cioè quei fattori noti per essere associati alla presenza di autoPEEP). Le analisi sono state due: 1) si è stimato quanti cmH2O di autoPEEP produce ciascuna causa (indipendemente dalle altre); 2) abbiamo identificato quelle cause che più spesso si associano alla presenza di valori elevati di PEEP intrinseca (almeno 5 cmH2O).

Un risultato è stato chiaro e sorprendente: volume corrente, frequenza respiratoriavolume/minutotempo espiratorio non producono, di per sè, quantità significative di autoPEEP in assenza di altre concause. Questo significa che in assenza di altri fattori favorenti la formazione di PEEP intrinseca, le variazioni di pattern respiratorio non influiscono significativamente sul valore di autoPEEP (perlomeno se si utilizzano le impostazioni di comune utilizzo clinico). La conseguenza pratica è che nei pazienti passivi “smanettaresul ventilatore per ridurre l’autoPEEP ha effetti limitati se non si va a curare ciò che sta alla radice del problema. Vediamo ora cosa sta alla radice del problema.

Il singolo fattore quantitativamente più importante nella genesi della PEEP intrinseca è la presenza di flow limitation (vedi post del 04/06/2012), che da sola spiega (in media) la presenza di oltre 2 cmH2O di autoPEEP. Avere flow limitation aumenta di 17 volte il rischio (=odds ratio) di avere elevati valori di PEEP intrinseca. Spesso è difficile misurare correttamente la PEEP intrinseca nei pazienti con attività respiratoria spontanea (alcuni ventilatori non fanno le occlusioni in ventilazione assistita, altre volte l’occlusione di fine espirazione non genera un plateau), ma spesso anche in questi pazienti è possibile valutare la flow limitation con la compressione manuale dell’addome. Quindi nella pratica non sempre possiamo sapere quanta PEEP intriseca ha un paziente, più spesso possiamo sapere se ha o meno flow limitation. Questo ci è sufficiente per sospettare o meno elevati valori di PEEP intrinseca: infatti in presenza di flow limitation molto probabilmente avremo PEEP intrinseca di almeno 5 cmH2O. E di questo dato possiamo fare tesoro per decidere se ingaggiare una battaglia con l’iperinflazione dinamica oppure se considerarla solo un problema poco rilevante nella gestione del paziente.

Un’altra variabile importante sono le resistenze dell’apparato respiratorio, che si associano a poco meno di 1 cmH2O di autoPEEP ogni 10 cmH2O.l-1.sec di resistenza. Nei nostri pazienti, che in media avevano 16 cmH2O.l-1.sec  di resistenza, questa poteva spiegare poco più di 1 cmH2O di PEEP intrinseca. Una resistenza superiore a 15 cmH2O.l-1.sec aumenta di 3 volte il rischio di avere elevati valori di autoPEEP.

Questi primi risultati ci dicono una cosa molto semplice: la PEEP intrinseca si riduce più efficacemente con il salbutamolo che manipolando frequenza respiratoria e volume corrente. I broncodilatatori sono infatti particolarmente efficaci nel ridurre l’iperinflazione dinamica nei pazienti con flow limitation (1,2), così come sono capaci di ridurre le resistenze nei pazienti senza flow limitation.

Abbiamo già anticipato che la durata (in secondi) del tempo espiratorio non ha alcuna relazione con il valore di PEEP intrinseca. Il tempo espiratorio diventa invece importante quando espresso, invece che in secondi, come multiplo della costante di tempo dell’apparato respiratorio (vedi post del 05/02/2014). Infatti tanto più è piccolo il rapporto tempo espiratorio/costante di tempo, tanto più elevata è la PEEP intrinseca. La riduzione di poco più di 1 unità di questo rapporto si associa ad un aumento della autoPEEP di circa 1 cmH2O. Il rapporto tempo espiratorio/costante di tempo ha un fondamentale significato fisiologico. Infatti il volume V espirato al tempo t è descritto dalla seguente equazione: V(t)=V(i).e-t/τ, dove V(i) è il volume iniziale e τ la costante di tempo (3,4). In altre parole il rapporto tempo espiratorio/costante di tempo è l’unico determinate del della quantità di volume espirato nell’espirazione fisiologica.

Mi rendo conto che l’argomento possa essere complesso, quindi cerchiamo di spiegarne il senso con un esempio. Ipotizziamo di avere due pazienti (Mario e Pippo), entrambi con un tempo espiratorio di 1.8 secondi: questo dato non ha un impatto rilevante sul loro valore di PEEP intrinseca. Aggiungiamo come dato la costante di tempo: Mario ha una costante di 0.9 secondi e Pippo invece di 1.8 secondi. Il rapporto tempo espiratorio/costante di tempo di Mario è 2 mentre quello di Pippo è 1. In questo modo vediamo una evidente differenza tra Mario e Pippo: Mario ha un tempo espiratorio più appropriato di Pippo e ci possiamo aspettare che abbia circa 1 cmH2O in meno di autoPEEP solo per questo aspetto. Chi ha un tempo espiratorio/costante di tempo inferiore a 1.85 (come Pippo) ha un rischio circa 13 volte maggiore di avere una PEEP intriseca elevata.

Cerchiamo di dare un significato pratico a tutto questo. I pazienti con elevata PEEP intrinseca di norma hanno elevate resistenze e di conseguenza una costante di tempo lunga. In questi pazienti solo aumenti molto rilevanti del tempo espiratorio (=riduzione di frequenza ed I:E), dell’ordine della costante di tempo, possono ridurre l’autoPEEP. In questo caso possono rientrare ad esempio i pazienti con crisi asmatica. Nei pazienti con basse resistenze, e quindi costante di tempo breve, la PEEP intrinseca è di solito bassa e si può ridurre anche con piccole variazioni del tempo espiratorio. Il paziente tipico in questa condizione è quello senza malattie ostruttive che ha sviluppato autoPEEP perchè ventilato con frequenza e/o I:E elevati.

In conclusione, ecco i punti fondamentali da ricordare:

- la PEEP intrinseca spesso è un problema rilevante se c’è flow limitation (impariamo a fare la manovra di compressione manuale dell’addome);

- utilizziamo i broncodilatatori come strumento principale per la riduzione della PEEP intrinseca;

- l’allungamento del tempo espiratorio diventa importante per ridurre la PEEP intrinseca solo nei pazienti gravemente ostruttivi. In questi casi l’aumento del tempo espiratorio deve essere molto rilevante per essere efficace.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Tantucci C et al. Effect of salbutamol on dynamic hyperinflation in chronic obstructive pulmonary disease patients. Eur Respir J 1998; 12:799-804
2) Boni E et al.  Volume effect and exertional dyspnoea after bronchodilator in patients with COPD with and without expiratory flow limitation at rest. Thorax 2002; 57:528-532
3) Zin WA et al. Single-breath method for measurement of respiratory mechanics in anesthetized animals. J Appl Physiol 1982; 52:1266-1271
4) Mathematical functions relevant to respiratory physiology. In: Lumb AB. Nunn’s applied respiratory physiology (7 th edition). Edinburgh, Churchill Livingstone Elsevier Ltd, 2010, pp 521-528

PS: Ciao Mario, buona fortuna!!!

Asincronie paziente-ventilatore durante la ventilazione meccanica.

$
0
0

PENAUTsLe asincronie durante la ventilazione meccanica sono un argomento di moda in ambito scientifico che mi piacerebbe riuscire a tradurre in alcuni semplici concetti utili nella pratica clinica.

Per asincronia possiamo intendere l’imperfetta sincronizzazione tra i tempi inspiratorio ed espiratorio del paziente e quelli del ventilatore. Tutti noi, anche quando respiriamo spontaneamente, abbiamo un periodo di inspirazione ed uno di espirazione che sono determinati dall’attività dei centri del respiro. Anche il ventilatore meccanico ha un periodo inspiratorio ed uno espiratorio che sono condizionati (nelle principali ventilazioni) dall’impostazione del ventilatore. L’asincronia paziente-ventilatore si manifesta quando i tempi del paziente e quelli del ventilatore non coincidono.

(Qualcuno classifica tra le asincronie anche l’inadeguata assistenza inspiratoria ma, indipendentemente dal fatto che ciò sia o meno corretto, non affronteremo questo capitolo.)

Per comprendere bene le asincronie paziente-ventilatore è necessario affidarsi alla valutazione del monitoraggio delle forme d’onda del monitoraggio respiratorio. A questo scopo è sufficiente la valutazione simultanea delle curve di flusso e pressione. Oggi (e nel prossimo post) affronteremo tre tipi di asincronie:

- l’autociclaggio, cioè l’inizio di una inspirazione meccanica in assenza di attività inspiratoria del paziente o dell’insufflazione programmata del ventilatore. In altre parole, il ventilatore “si sbaglia” e crede di percepire l’inizio dell’attività inspiratoria del paziente che in realtà non è presente;

- lo sforzo inefficace, l’esatto contrario dell’autociclaggio: il paziente inizia l’inspirazione ma il ventilatore non lo percepisce e quindi non inizia ad erogare flusso inspiratorio. Il paziente quindi cerca di inspirare (inutilmente) durante la fase espiratoria del ventilatore;

- il doppio trigger, cioè l’attivazione consecutiva di due inspirazioni non separate da un significativo periodo espiratorio: appena termina un’inspirazione ne inizia immediatamente un’altra.

Esistono anche altri tipi di asincronie che riguardano la fine dell’inspirazione, di queste avremo modo di parlerne in altre occasioni.

Le asincronie paziente-ventilatore non sempre sono ben chiare nell’attività clinica quotidiana. Quando si dice che il paziente è “disadattato”  o che “contrasta”, in realtà si dovrebbe definire meglio quale è il problema: che tipo di asincronia abbiamo di fronte? Ciacuna asincronia ha il proprio specifico trattamento, i propri peculiari accorgimenti nell’impostazione del ventilatore. Abbiamo quindi la necessità di capirle meglio per riuscire a risolverle. Dire che un paziente “contrasta” o è “disadattatonon ci fornisce alcuna indicazione su come migliorare l’interazione paziente-ventilatore.

Prima di discutere insieme le asincronie e le loro implicazioni cliniche, penso sia utile che tutti gli amici di ventilab mi diano una mano per capire che livello di approfondimento dare all’argomento. Pertanto invito caldamente tutti a rispondere al questionario che segue. Chi legge il post dalla propria email, dovrebbe accedere alla pagina web di ventilab (www.ventilab.org o cliccare sul titolo del post che è arrivato nella posta elettronica) per poter partecipare.  Le risposte mi consentiranno per capire meglio cosa dire e come dirlo.

Per adesso quindi ringrazio in anticipo tutti coloro che risponderanno, e fra un paio di settimane ci ritroveremo a discutere parlando di asincronie paziente-ventilatore.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

PS: se vuoi puoi anche lasciare un commento.

Asincronie paziente-ventilatore durante la ventilazione meccanica (parte seconda): la diagnosi.

$
0
0

snoopy_erroriNell’ultimo post abbiamo iniziato a parlare di asincronie paziente-ventilatore. Ho concluso il post con un breve quiz a cui hanno risposto 129 tra i più attenti ed intraprendenti lettori di ventilab. Ecco le mie risposte commentate alle domande.

pcv-vg_detail

Figura 1

Modalità di ventilazione meccanica. Nella figura 1 propongo il dettaglio di una inspirazione, la traccia superiore (gialla) è la pressione delle vie aeree, quella inferiore (verde) il flusso delle vie aeree. L’inspirazione si riconosce facilmente perchè il flusso è positivo (cioè sopra la linea tratteggiata): la forma del flusso inspiratorio è decrescente e la pressione nelle vie aeree durante l’inspirazione è costante, due caratteristiche tipiche delle ventilazioni pressometriche. Qualsiasi ventilazione pressometrica infatti per definizione deve (o, meglio, dovrebbe) mantenere costante la pressione delle vie aeree durante l’inspirazione, ed il flusso inspiratorio decrescente è la conseguenza dell’inspirazione a pressione costante. Possiamo quindi escludere che si tratti di una ventilazione volumetrica (di norma caratterizzata da un flusso inspiratorio costante ed una pressione delle vie aeree che aumenta durante l’inspirazione) (vedi post del 27/11/2011). Il 73% dei lettori ha risposto correttamente a questa domanda. La ventilazione pressometrica che stiamo vedendo è assistita perchè si vede una piccola riduzione della pressione delle vie aeree prima dell’insufflazione, segno di attivazione del trigger inspiratorio. Potremmo quindi avere impostato una pressione controllata, una pressione controllata a target di volume (che è una ventilazione  pressometrica, anche se imposta un volume!), o una pressione di supporto. Dalle immagini a disposizione non si può stabilire con certezza quale di queste tre ventilazioni sia quella realmente utilizzata (nella realtà era una pressione controllata a target di volume).

peepi_ineffective_effort

Figura 2

Iperinflazione dinamica. La presenza di iperinflazione dinamica si può rilevare con l’interruzione del flusso espiratorio al momento dell’inizio dell’insufflazione successiva. Nella figura 2 persiste ancora il flusso espiratorio quando inizia l’inspirazione? Il caso è subdolo e la risposta è “sì”. Infatti se vediamo il flusso espiratorio alla fine della traccia è quasi a zero, ma non proprio zero (si riesce a vedere la linea bianca punteggiata che rappresenta il flusso zero). Abbiamo visto nel post del 18/08/2014 che in questi casi spesso c’è flow limitation e quindi si possono sviluppare anche autoPEEP elevate. Quindi in questo paziente ci possiamo aspettare iperinflazione dinamica e PEEP intrinseca (come ha risposto correttamente il 67% dei lettori), probabilmente di entità non trascurabile.

Sforzi inefficaci. Le curve di flusso e pressione ci fanno vedere uno sforzo inefficace (34% di risposte corrette). Lo vediamo a metà della traccia di flusso in figura 2, quando per un istante il paziente annulla l’espirazione (il flusso espiratorio arriva a toccare la linea dello zero) ma poi ricomincia ad espirare. La traccia bianca della figura (generata dalla rilevazione dell’attività elettrica diaframmatica rilevata dal monitoraggio con catetere per NAVA®, Neurally Adjusted Ventilatory Assisst, Maquet) identifica nello stesso istante una contrazione del diaframma. Lo sforzo inefficace si verifica quando il paziente tenta di inspirare (=contrae i muscoli inspiratori) ma non attiva il trigger. La diagnosi di sforzo inefficace si fa sulla curva di flusso espiratorio, dove si nota è la transitoria riduzione (o addirittura l’annullamento) del flusso espiratorio che subito dopo ricomincia ad una velocità simile a quella che aveva prima del rallentamento. La spiegazione è semplice: il flusso esprime la velocità del volume di gas che si muove nelle vie aeree, è negativo quando l’aria esce dalle vie aeree, è positivo quando l’aria entra nelle vie aeree del paziente.  Un flusso molto negativo vuol dire che l’aria esce velocemente dalle vie aeree, uno poco negativo vuol dire che l’aria esce lentamente. Se iniziamo un’inspirazione mentre c’è ancora un flusso espiratorio, significa che richiamiamo nelle vie aeree il flusso che sta uscendo, si riduce (o si annulla) quindi la velocità del gas che stiamo espirando: in questo caso il flusso espiratorio si avvicina alla (o tocca la) linea dello zero. Se questa attività inspiratoria è insufficiente per iniziare una nuova inspirazione (=non attiva il trigger inspiratorio), quando si rilassa la muscolatura inspiratoria, il flusso espiratorio riprende la propria velocità di uscita (si riallontana dalla linea dello zero).

double_trigger

Figura 3

Doppio trigger. Questa asincronia paziente-ventilatore identifica due inspirazioni separate da un tempo espiratorio molto breve e la prima inspirazione è triggerata dal paziente. Il tempo espiratorio è spesso arbitrariamente definito “breve” quando è meno della metà del tempo inspiratorio medio. Nella figura proposta nell’ultimo post vediamo chiaramente due doppi trigger (79% di risposte corrette). Nella figura tre vediamo il dettaglio di uno di questi doppi trigger: i due flussi inspiratori sono separati da un brevissimo tempo inspiratorio, nettamente più corto della metà dei tempi inspiratori. Da notare che il monitoraggio con catetere NAVA ci consente di affermare che la seconda inspirazione è autociclata perchè si verifica in assenza di attività diaframmatica. In assenza del monitoraggio dell’attività elettrica del diaframma questo autociclaggio sarebbe assolutamente impossibile da identificare, perchè la pressione delle vie aeree, prima della seconda inspirazione, cala al di sotto del valore di PEEP, come quando il trigger viene realmente attivato dal paziente. La spiegazione per questo fenomeno esiste, ma è piuttosto complessa da spiegare: la affronteremo in qualche commento se dovesse interessare.

trigger

Figura 4

Autociclaggio. Nella figura 4 ripropongo l’immagine del questionario con l’aggiunta di qualche dettaglio. Il livello della PEEP è stato continuato con la linea tratteggiata rossa durante i periodi inspiratori. Inoltre è stata evidenziata con un cerchio la deflessione della pressione inspiratoria che precede ogni insufflazione, di norma segno di attivazione del trigger inspiratorio da parte del paziente. Da questi dati emergerebbe che tutti le inspirazioni sono triggerate e quindi non ci sono autociclaggi (50% di risposte corrette). Per una trattazione più approfondita del fenomeno rimando al post del 27/01/213. Come accennato nel paragrafo precedente, però disponendo del segnale generato dal catetere NAVA possiamo vedere che nei due doppi trigger la seconda inspirazione è autociclata. Se scegliamo questo approccio per valutare gli autociclaggi, le risposte corrette scenderebbero al 31%.

Fino a qui abbiamo discusso come e perchè diagnosticare sforzo inefficace, doppio trigger ed autociclaggio. Riassumendo:

1) sforzo inefficace: il flusso espiratorio si avvicina alla (o raggiunge) la linea dello zero per poi riallontanarsi dallo zero;

2) doppio trigger: dopo un’inspirazione triggerata, l’inspirazione successiva avviene dopo un’espirazione molto più breve dell’inspirazione;

3) autociclaggio: manca la piccola riduzione della pressione delle vie aeree prima dell’insufflazione (abbiamo visto che possono esserci dei falsi negativi: sembra che ci sia il triggeraggio, ma invece non c’è)

Non abbiamo però detto cosa fare quando si vedono queste asincronie paziente-ventilatorese dobbiamo considerarle sempre tutte “cattive” (la risposta all’ultima domanda del questionario). Mi sembra però che per oggi possa bastare, affronteremo prossimamente questi argomenti (prima ci sarà un post di Daniele su un argomento veramente interessante…), 

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Insufficienza respiratoria, terapia intensiva e cancro

$
0
0

pets-3_1718379cQuando siamo chiamati a valutare un paziente affetto da una patologia oncologica o onco-ematologica in insufficienza respiratoria acuta ci troviamo davanti ad alcune decisioni difficili e al tempo stesso cruciali. In sintesi dobbiamo stabilire se:

a)  il supporto delle funzioni vitali possa procurare al paziente un reale beneficio o piuttosto comporti solo un prolungamento delle sue sofferenze;

b) nei casi di dubbio sull’indicazione al supporto vitale, sia opportuno trasferire il paziente in terapia intensiva (TI) o gestirlo finché possibile in reparto a minore intensità di cure;

c) nei casi in cui vi è indicazione al  supporto vitale, la ARF sia da trattare con ventilazione non invasiva (NIV) oppure invasiva.

La mortalità dei pazienti neoplastici ricoverati in terapia intensiva si è rivelata in passato elevatissima (oltre l’80-90% nei pazienti ematologici1), per cui l’ammissione in TI e la ventilazione meccanica sono state a lungo considerate interventi discutibili in quanto futili.

Dati più recenti indicano tuttavia che la sopravvivenza dei pazienti neoplastici ricoverati in TI e/o sottoposti a ventilazione meccanica è significativamente migliorata nell’ultimo decennio (27-58%2), tanto che ultimamente essi rappresentano il 15-20% di tutte le ammissioni nei reparti intensivi2,3. La riduzione della mortalità è ascrivibile certamente ai progressi compiuti in campo onco/ematologico e intensivistico, ma probabilmente anche a un più efficace triage dei pazienti e allo sviluppo di nuove politiche di ammissione in TI, frutto di una migliore cooperazione tra onco/ematologi e intensivisti4.

Sebbene l’incertezza prognostica sia quasi sempre la regola, per l’eterogeneità delle condizioni generali dei pazienti, dei margini di curabilità del tumore e della gravità della malattia critica, considerare i predittori di successo e di fallimento del trattamento intensivo può aiutare a orientarci sulla questione di cui al punto a del post. In generale sono considerati predittori di esito favorevole lo scompenso cardiaco acuto come causa di insufficienza respiratoria, la batteriemia recente, l’efficacia precoce della ventilazione non invasiva, la chemioterapia di prima linea o lo status di remissione completa, le buone condizioni generali; predittori di esito sfavorevole sono invece l’elevato (>2) numero di insufficienze d’organo, il fallimento della ventilazione non invasiva o la necessità iniziale di ventilazione invasiva, l’assenza di diagnosi eziologica di ARF, la micosi invasiva, l’età avanzata. Tali fattori non hanno un valore prognostico assoluto, ma dovrebbero integrare il giudizio clinico sulle condizioni attuali del paziente, possibilmente in accordo con l’onco/ematologo curante: eventuali decisioni sul fine vita non andrebbero rimandate, perché ciò non fa che aumentare il carico di sofferenza fisica e emotiva sul paziente e sui suoi familiari5.

Nei casi dubbi (punto b del post), diverse evidenze suggeriscono una più larga politica di ammissione in TIdei pazienti oncologici, sebbene sia da evitare ogni irragionevole ostinazione terapeutica e siano da rispettare valori e desideri del paziente, così come la sua spettanza di vita. Per i pazienti candidabili a TI distinguiamo tre opzioni4 (figura 1):

1) a trattamento pieno senza limitazioni: sono di solito i pazienti in trattamento di prima linea o quelli con malattia a evoluzione cronica; nel caso di trapianto di midollo osseo bisogna includere in questa opzione i pazienti che si trovano nelle prime 4 settimane dal trapianto, quelli con malattia da rigetto controllata e quelli con epilessia o encefalopatia reversibile;

2) trattamento pieno senza limitazioni di intensità per un tempo limitato (il cosiddetto ICU trial12): alternativa possibile per i pazienti in remissione, con malattia stabile e possibilità di ulteriori opzioni chemioterapiche o con prognosi dubbia o indefinita; consiste nel trattamento pieno per 3-6 gg, quindi nella rivalutazione giornaliera delle disfunzioni d’organo: in assenza di miglioramenti non si incrementano ulteriormente le terapie e si valuta l’avvio di palliazione;

3) ammissione per sola palliazione (pazienti da non intubare): è comunque controverso se la TI sia il posto migliore per offrire una NIV palliativa o per morire.

Immagine1

Il piano terapeutico deve essere precocemente ed esplicitamente chiarito con il paziente o i suoi parenti e gli onco/ematologi. La precocità della eventuale ammissione in TI così come del trattamento della insufficienza respiratoria sembra comportare un vantaggio in termini di sopravvivenza4,13: onco/ematologi e intensivisti dovrebbero probabilmente collaborare prima che le insufficienze d’organo divengano conclamate.

Veniamo al punto c). L’efficacia della ventilazione non invasiva nei pazienti neoplastici, segnalata da alcuni studi, non è confermata da altri e potrebbe essere sovrastimata4. L’intubazione e la ventilazione invasiva sono associati ad aggravamento della prognosi, ma anche la non invasiva, che se applicata precocemente è risultata efficace nel migliorare gli scambi gassosi, ridurre il tasso di intubazione e migliorare l’outcome, è associata ad elevata mortalità in caso di fallimento6,7. Per quanto ne sappiamo oggi, quindi, in assenza di controindicazioni e di predittori di fallimento della NIV, quest’ultima andrebbe applicata precocemente e il paziente dovrebbe essere attentamente monitorizzato e intubato in caso di mancato miglioramento in tempi rapidi (anche 1-2 ore)4,8. I predittori di fallimento della NIV sono in sostanza elevati indici di gravità generale del paziente, elevata gravità della insufficienza respiratoria, assenza di diagnosi eziologica di insufficienza respiratoria, scarsa tolleranza del paziente alla metodica.

In figura 2 una schematica sintesi sulla gestione dell’insufficienza respiratoria nel paziente onco/ematologico9.

Immagine2

Quale sia il luogo più idoneo in cui iniziare il trattamento con NIV (reparto onco/ematologico o TI) resta una questione in sospeso4, essendo disponibili in letteratura pochissime evidenze che forniscono indicazioni di segno opposto10,11. Verosimilmente la disponibilità immediata di sistemi di monitoraggio, di personale infermieristico e di intensivisti in grado di prendere decisioni adeguate e tempestive gioca un ruolo determinante.

In sintesi, possiamo concludere che:

  1. nel decidere che tipo di assistenza offrire al paziente oncologico possiamo affiancare al giudizio clinico la conoscenza dei principali predittori di esito;

  2. l’ammissione in TI dovrebbe essere allargata a tutti i pazienti che possano trarne un realistico beneficio, ricorrendo nei casi dubbi a un trial di alcuni giorni di TI;

  3. se il paziente non è in condizioni troppo gravi il trattamento dell’insufficienza respiratoria può essere la NIV, purché iniziata precocemente e precocemente convertita in invasiva in caso di mancato miglioramento in tempi rapidi.

Con un simile approccio potremo evitare di negare ad alcuni pazienti il supporto vitale potenzialmente utile, minimizzando al tempo stesso il numero e la durata di trattamenti inefficaci, eccessivi e penosi. In contesti caratterizzati da limitazione della spesa sanitaria e da scarsità di posti letto in TI tale strategia dovrebbe consentire una razionale allocazione delle risorse. Una sia pur grossolana verifica della correttezza del metodo proposto potrebbe esserci fornita dal confronto tra percentuali di ricovero, indici di gravità e mortalità dei pazienti onco/ematologici delle nostre terapie intensive con i dati recenti della letteratura.

Un cordiale saluto agli amici e ai lettori di ventilab.

Bibliografia

  1. Ewig S et al. Pulmonary complications in patients with haematological malignancies treated at a respiratory ICU. Eur Respir J 1998;12:116-22

  2. Taccone FS et al. Characteristics and outcomes of cancer patients in European ICUs. Crit Care 2009; 12(1):R15

  3. Soares M et al. Characteristics and outcomes of patients with cancer requiring admission to intensive care units: a prospective multicenter study. Crit Care Med 2010; 38(1):9-15

  4. Saillard C et al. Mechanical ventilation in cancer patients. Minerva Anestesiol 2014;80:712-25

  5. Benoit D et al. Has survival increased in cancer patients admitted to the ICU? We are not sure. Intensive Care Med 2014; 40:1576-9

  6. Depuydt P et al.The impact of the initial ventilatory strategy on survival inhematological patients with acute hypoxemic respiratory failure. J Crit Care 2010; 25:30-6

  7. Molina R et al.Ventilatory support in critically ill hematology patients with respiratory failure. Crit Care 2012; 16:R133

  8. Kostakou E et al. Critically ill cancer patient in intensive care unit: Issues that arise. J Crit Care 2014; 29:817-22

  9. Soares M et al. Noninvasive ventilation in patients with malignancies and hypoxemic acute respiratory failure: A still pending question. J Crit Care 2010; 25:37-8

  10. Squadrone V et al.Early CPAP prevents evolution of acute lung injury in patients with hematologic malignancies. Intensive Care Med 2010; 36:1666-74

  11. Wermke M et al.Respiratory failure in patients undergoing allogeneic hematopoietic SCT-a randomized trial on early non-invasive ventilation based on standard care hematologic wards. Bone Marrow Transplant 2012; 47:574-80

  12. Lecuyer L et al. The ICU Trial: A new admission policy for cancer patients requiring mechanical ventilationCrit Care Med 2007; 35:808–814

  13. Mokart D, et al. Delayed ICU admission is associated with increased mortality in cancer patients with acute respiratory failure. Leuk Lymphoma 2013;54:1724-9

Viewing all 140 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>