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ARDS primitiva e secondaria: una distinzione utile o no?

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Bentrovati a tutti, oggi propongo un tema di rilevanza pratica non immediata ma che penso possa essere egualmente interessante: le correlazioni tra eziopatogenesi, alterazioni anatomopatologiche, meccanica del sistema respiratorio e possibili effetti della terapia ventilatoria nella ARDS (acute respiratory distress syndrome).

La ARDS non è determinata da una causa eziopatogenetica definita, ma rappresenta una risposta aspecifica a svariati insulti patogeni, caratterizzata da insorgenza acuta, ipossiemia, infiltrati polmonari bilaterali, aumento dell’elastanza del sistema respiratorio e riduzione della capacità funzionale residua (per la definizione di ARDS vedi post del 24 giugno 2012).[1]

Schematicamente, la ARDS è detta primitiva (o primaria, o polmonare, ARDSp) se la noxa colpisce direttamente il parenchima polmonare (per esempio in caso di polmonite, aspirazione di contenuto gastrico, semi-annegamento, contusioni polmonari, inalazione di tossici, ecc.); si parla invece di ARDS secondaria (o extrapolmonare, ARDSexp) se la noxa agisce indirettamente sui polmoni, attraverso una reazione infiammatoria sistemica acuta (per esempio in caso di sepsi grave, trauma maggiore, by-pass cardiopolmonare, trasfusioni massive, pancreatite acuta, ecc.).[1]

Spesso la differenziazione tra le due diverse modalità di lesione è facile, come nel caso di polmoniti primarie, oppure di pancreatite; talvolta però l’identificazione del meccanismo è più dubbia, come in caso di traumi o di chirurgia cardiaca.[2]

La distinzione tra i due tipi di ARDS non è solo speculativa: a partire dagli anni ’90 sono state identificate alcune caratteristiche anatomopatologiche, morfologiche e fisiopatologiche che spesso differenziano le due forme, almeno nelle fasi iniziali (cioè nella prima settimana dall’insorgenza)*, e che possiamo così sintetizzare:

  • anatomia patologica:

- ARDSp: la struttura primariamente danneggiata è l’epitelio alveolare, con aumento della sua permeabilità, attivazione di macrofagi, riduzione di surfattante e inondamento intraalveolare da parte di essudato ricco in fibrina, collagene, aggregati neutrofilici: si ha tendenza precoce e al consolidamento delle aree colpite e alla fibrosi. Il liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) è ricco di citokine infiammatorie.
- ARDSexp: i mediatori della flogosi, prodotti a livello extrapolmonare, raggiungono per via ematica e danneggiano primariamente l’endotelio dei capillari alveolari, con incremento della permeabilità, attivazione di monociti, neutrofili e piastrine, formazione di microtrombi, congestione capillare e edema interstiziale; gli spazi intraalveolari sono relativamente risparmiati ma il maggior peso dell’interstizio imbibito causa secondariamente collasso e atelettasia delle aree del polmone sottoposte alla forza di gravità (quelle posteriori, se il paziente è allettato). Il BAL è relativamente povero di citokine.[3]

  • radiologia:

- ARDSp: prevalente coinvolgimento multifocale e asimmetrico dei polmoni, con più o meno estese aree di consolidamento parenchimale (opacità molto dense) miste a zone di addensamento tipo vetro smerigliato (meno dense).
- ARDSexp: distribuzione più simmetrica e uniforme di aree di addensamento a vetro smerigliato (come risultato di un danno interstiziale diffuso) associata a zone dorsali di consolidamento da atelettasia.[4]

  • meccanica respiratoria:

- ARDSp: l’aumentata elastanza del sistema respiratorio è attribuibile prevalentemente all’aumentata rigidità dei polmoni.
- ARDSexp: l’aumentata elastanza del sistema respiratorio è attribuibile più spesso all’aumentata rigidità della parete toracica, in particolare al diaframma e all’aumentata pressione intraaddominale. [5]

 

Ma quali ricadute pratiche può avere questa diversità tra le due condizioni?

Sebbene numerosi studi, sia clinici, sia su modelli animali, suggeriscano che in caso di ARDSexp i polmoni siano più facilmente reclutabili in seguito all’applicazione della pressione positiva (PEEP, manovre di reclutamento, sospiri intermittenti) o in seguito alla pronazione del paziente rispetto alla ARDSp, altre osservazioni non confermano queste conclusioni. Schematicamente, la PEEP favorirebbe la riapertura di alveoli collassati atelettasici nell’ARDSexp, mentre nell’ARDSp non sarebbe sufficiente a riespandere le aree consolidate e rischierebbe di determinare sovradistensione delle unità già areate. Le ragioni della incongruenza di risultati tra i diversi studi possono essere molte: difficoltà ad attribuire con certezza molti casi di ARDS ad una delle due categorie, eterogeneità del livello di gravità e della fase di evoluzione della malattia, uso di farmaci vasoattivi o impatto della gittata cardiaca sugli scambi gassosi, differenze in pressione transpolmonare ottenuta a parità di pressione applicata nelle vie aeree, solo per citarne alcune.[6] Probabilmente per analoghi motivi anche i dati sulla mortalità delle due forme di ARDS sono sostanzialmente incongruenti nel rilevare differenze.[6]

In conclusione, indipendentemente dal meccanismo eziopatogenetico che pensiamo di aver individuato[7], nel trattamento dell’ARDS dobbiamo per ora continuare ad attenerci ai criteri della ventilazione protettiva ricavabili dalla letteratura accreditata, individualizzando per quanto possibile la ventilazione alle caratteristiche del paziente che stiamo curando.
Se la risposta clinica del paziente ai trattamenti corroborerà la nostra ipotesi patogenetica, questo post avrà forse raggiunto il suo scopo.

Un caro saluto a tutti.

 

* L’evoluzione successiva è grosso modo comune alle due forme e consiste in progressiva proliferazione fibroblastica e distruzione lobulare, con esito finale in fibrosi associata a rarefazione interstiziale.

 

 

Bibliografia

  1. Bernard GR, et al. The American-European Consensus Conference on ARDS: Definitions, mechanisms, relevant outcomes and clinical trial coordination. Am J Respir Crit Care Med 1994; 149:818-24

  2. Pelosi P, et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome are different. Eur Respir J 2003; 22: Suppl. 42, 48s-56s

  3. Rocco PR, et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome: are they different? Curr Opin Crit Care 2005; 11:10-17

  4. Goodman LR et al. Adult respiratory distress syndrome due to pulmonary and extrapulmonary causes: CT, clinical, and functional correlation. Radiology 1999; 213:545-552

  5. Gattinoni L et al. Acute respiratory distress syndrome caused by pulmonary and extrapulmonary disease: different syndromes? Am J Respir Crit Care Med 1998; 158:3-11

  6. Rocco PR et al. Pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome: myth or reality? Curr Opin Crit Care 2008; 14:50–55

  7. Thille AW et al. Alveolar recruitment in pulmonary and extrapulmonary acute respiratory distress syndrome. Anesthesiology 2007; 106:212-217


Fibrosi polmonare riacutizzata e ventilazione non-invasiva.

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Qualche tempo fa una lettrice di ventilab mi chiese un approfondimento su ventilazione non-invasiva e fibrosi polmonare. Come tutti i rianimatori purtroppo vedo sporadicamente solo le gravi riacutizzazioni nei pazienti fibrotici e la storia è sempre la stessa: si inizia la ventilazione invasiva (spesso le informazioni sono poche quando di devono prendere le prime decisioni) e si combatte una battaglia persa. Non avendo quindi un’esperienza personale significativa sulla ventilazione non-invasiva nella fibrosi polmonare, ho chiesto a chi ne ha più di me di scrivere un post per ventilab su questo argomento. Ringraziamo quindi il dott. Luca Barbano della Unità Operativa di Pneumologia della Fondazione Maugeri di Lumezzane per avere condiviso con noi la propria conoscenza ed esperienza su ventilazione non-invasiva e fibrosi polmonare. Con grande piacere pubblico su ventilab il suo contributo. Grazie ancora, Luca.

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L’argomento proposto prende in considerazione una condizione particolare di utilizzo della ventilazione non-invasiva con pochi studi al riguardo e per questo senza una evidenza di utilizzo. Ci sono dei margini di utilizzo della ventilazione non-invasiva in un paziente affetto da riacutizzazione di fibrosi polmonare idiopatica con peggioramento degli scambi respiratori?

La fibrosi polmonare idiopatica è una patologia cronica, progressiva con esito infausto. La terapia medica al momento non riesce a incidere significativamente sulla progressione della malattia e per questo è una delle patologie respiratorie per cui è previsto il trapianto polmonare.

Circa il 10% dei pazienti con fibrosi polmonare, imprevedibilmente, possono andare incontro a repentine riacutizzazioni che li portano all’attenzione dello Pneumologo e/o dell’Intensivista. Sono caratterizzate da peggioramento della dispnea e della ossiemia da meno di 1 mese, con comparsa di nuovi infiltrati polmonari escludendo ogni altra causa identificabile di insulto polmonare (a genesi cardiaca o infettiva) (1)

 Nella pratica clinica ci potremo allora trovare di fronte a 3 scenari (vedi figura 1). (2)

A) naturale evoluzione della malattia: peggioramento in pazienti che si trovano in stadio finale di malattia, già in O2 terapia ad alti flussi; sarà necessario prendere decisioni riguardanti interventi di palliatività (necessaria anamnesi patologica recente per conoscere la situazione degli ultimi mesi di malattia);

B)  vera riacutizzazione: il paziente va incontro a fatica respiratoria molto velocemente tanto da non avere tempo di poter eseguire indagini per scoprire la causa del peggioramento per cui si prende tempo iniziando un supporto ventilatorio;

C) vera riacutizzazione con ingresso in reparto medico non intensivo: la causa non è direttamente riconducibile alla fibrosi polmonare ma determina un peggioramento degli scambi respiratori del paziente (la risoluzione del problema determinerebbe il miglioramento respiratorio).

In ogni caso anche quando si tratta di riacutizzazione vera di fibrosi polmonare idiopatica senza una chiara eziologia sembrerebbe che alla base comunque ci possano essere virus tipo EBV, CMV, HS, influenzale (ricordiamoci che sono pz. in molti casi in terapia con immunosoppressori) (3)

Non ci sono molti studi sulla modalità di ventilazione di questi pazienti. La maggior parte di questi prende in considerazione la ventilazione invasiva. Anche la Consensus Conference 2011 sulla fibrosi polmonare idiopatica conferma la possibilità della ventilazione invasiva ponendo l’accento però sulla elevatissima mortalità intraospedaliera (67-96%) che raggiunge il 100% a 2 mesi dalla dimissione.

Pochi studi prendono in considerazione anche pazienti con ventilazione non-invasiva.

Quale ruolo può avere la ventilazione non-invasiva ?

La ventilazione non-invasiva può avere due vantaggi potenziali:

1- offre una possibilità per evitare l’intubazione (gravata da elevatissima mortalità) (4,5,6)

2- evita le complicanze della ventilazione invasiva (polmoniti associate al ventilatore e ventilator-associated injury)

Vorrei sottolineare due considerazioni che ritengo fondamentali per una corretta applicazione della ventilazione non-invasiva in condizioni di insufficienza respiratoria acuta in questi pazienti:

1- necessità di ventilatori con possibilità di monitoraggio delle curve, di trigger flow-by, di determinazione esatta della FiO2 e di ottimale umidificazione;

2- utilizzo degli stessi ventilatori in ambienti che garantiscano uno shift con la ventilazione invasiva immediato.

Dagli studi non ci sono indicazioni circa un settaggio ottimale. Dal punto di vista fisiopatologico sono pazienti con polmoni difficili da espandere con bassa compliance per cui nella nostra esperienza utilizziamo: modalità pressione di supporto con valori di pressione di supporto con incremento progressivo a comfort (si arriva a valori di 18-20 cmH2O); PEEP non elevata (in genere 4-5 cmH2O). L’obiettivo è ridurre la frequenza respiratoria, migliorare saturazione di O2 e scambi gassosi (Mollica et al. riportano pressione di supporto media di 18 cmH2O e PEEP media 7 cmH2O) (3). Negli studi giapponesi Yokoyama ha utilizzato CPAP con pressione media a 12 cmH2O (4), Tomii sia CPAP che pressione di supporto+PEEP (5). Un’altra opzione potrebbe essere l’utilizzo di modalità volumetrica ma nella nostra esperienza è meno tollerata con raggiungimento di alte pressioni di picco e maggiore probabilità di perdita dalla maschera. L’interfaccia utilizzata nello studio di Mollica era il casco anche se nella nostra esperienza utilizziamo maschera oronasale.

Le condizioni che determinano il fallimento della ventilazione non-invasiva sono quelle classiche, date da comparsa di coma, instabilità cardiovascolare, scarsa compliance alla ventilazione e chiari segni di fatica respiratoria.

In conclusione la ventilazione non-invasiva nella fibrosi polmonare idiopatica può essere usata:

  • in pazienti con situazione generale non drammaticamente compromessa (in uno studio i pazienti ventilati in ventilazione non-invasiva avevano APACHE medio 19 (3)), come opzione percorribile in considerazione dell’alto tasso di fallimento della ventilazione invasiva e della sua alta mortalità (tenendo sempre presente la possibilità di intervenire con una ventilazione invasiva)

  • come trattamento palliativo di controllo dei sintomi in pazienti esclusi dalla lista trapianto in stadio terminale di malattia che abbiano espressamente rifiutato approccio invasivo.

 

Bibliografia.

1- An Official ATS/ERS/JRS/ALAT Statement: Idiopathic Pulmonary Fibrosis: Evidence-based Guidelines for Diagnosis and Management. Am J Respir Crit Care Med Vol 183. pp 788–824, 2011

2- Papiris SA, Manali ED, Kolilekas L, Kagouridis K, Triantafillidou C, Tsangaris I and Roussos C. Clinical review: idiopathic pulmonary fibrosis acute exacerbations – unravelling Ariadne’s thread Critical Care 2010, 14:246

3- Hyzy R, Huang S,J Myers J,. Flaherty K, Martinez F. Acute exacerbation of idiopathic pulmonary fibrosis. Chest 2007; 132: 1652-1658

4- Mollica C, Paone G, Conti V, Ceccarelli D, Schmid G, Mattia P, Perrone N, Petroianni A, Sebastiani A, Cecchini L, Orsetti R, Terzano C. Mechanical Ventilation in Patients with End-Stage Idiopathic Pulmonary Fibrosis Respiration 2010;79:209

5- Keisuke Tomii K, Tachikawa R, Chin K, Murase K, Handa T, Mishima M and Ishihara K. Role of Non-invasive Ventilation in Managing Life-threatening Acute Exacerbation of Interstitial Pneumonia. Inter Med 49: 1341-1347, 2010

6- Yokoyama T, Kondoh Y , Taniguchi H, Kataoka K , Kato, K, Nishiyama O , Kimura T, Hasegawa R and Kubo K. Noninvasive Ventilation in Acute Exacerbation of Idiopathic Pulmonary Fibrosis. Inter Med 49: 1509-1514, 2010

INFERMIERI DI TERAPIA INTENSIVA CHE RICONOSCONO LE ASINCRONIE DURANTE VENTILAZIONE MECCANICA

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Mi sono imbattuto in questo agile lavoro (uno degli autori è Villar) e sono stato colpito dal titolo che ho trovato stimolante dal momento che alcuni dei nostri infermieri, grazie agli stimoli di Beppe, si sono addentrati nella conoscenza del monitoraggio grafico della ventilazione meccanica. Penso che dalla sua lettura si possano ricavare alcuni utili insegnamenti 

 

 Cosa hanno fatto gli autori?

Uno studio osservazionale in cui hanno raccolto le curve di flusso e pressione di 8 pazienti ricoverati in terapia intensiva e ventilati meccanicamente, hanno realizzato delle immagini (in formato JPEG) di 1024 respiri, li hanno sottoposti a 5 medici intensivisti esperti in ventilazione meccanica che, in modo cieco l’uno rispetto all’altro, le hanno classificate per la presenza o meno di sforzi inefficaci (o come “inclassificabile”); tre risposte concordanti hanno permesso di classificare le immagini. A questo punto gli autori dello studio hanno identificato due nurses esperte (4 anni di servizio) in terapia intensiva polivalente e per 2 ore al giorno per 20 giorni le hanno addestrate (con letture scientifiche e attività sul campo) a riconoscere la presenza o meno di sforzi inefficaci.

 

 

I risultati sono espressi come sensibilità, specificità, valore predittivo positivo (PPV) e negativo (NPV), ed con un indice di concordanza κ, che misura quanto le risposte degli esaminandi sono in accordo con quelle degli esperti, ritenuto buono se > 0,41 ed eccellente per valori > 0,75. Le due nurse hanno ottenuto risultati differenti ma buoni per entrambe: la prima ha riportato sensibilità = 92,5% e specificità = 98,3%, con un PPV del 95,4% , un NPV del 97,1% ed un κ di 0,92; la seconda sensibilità = 98,5% e specificità = 84,7%, PPV = 70,7% e NPV del 99,3% con un κ di 0,74.

La letteratura è concorde nel sottolineare come la presenza di asincronie tra paziente e ventilatore sia un fattore in grado di prolungare la durata della ventilazione meccanica, la degenza in terapia intensiva ed in ospedale. Dal punto di vista fisiopatologico possono determinare aumento del lavoro respiratorio. Quindi individuarle può favorire il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

Dal momento che gli infermieri lavorano a stretto contatto con il paziente, questo lavoro di riconoscimento potrebbe essere svolto dall’infermiere addestrato, lasciando la risoluzione dei problemi al medico. L’addestramento permetterebbe all’infermiere di acquisire competenze ulteriori rispetto a quelle in suo possesso, con maggiore gratificazione e probabilmente maggiore affezione al proprio attuale lavoro. Questo studio mostra che con un impegno inferiore ad un mese è possibile ottenere buoni risultati. Già ora un infermiere in terapia intensiva deve saper riconoscere un onda di lesione o una aritmia potenzialmente letale al monitor ECG: perché non potrebbe (dovrebbe!) riconoscere anche un’asincronia al monitor del ventilatore?

Resta imperativo che il medico deve approfondire la terapia ventilatoria, sia in termini di monitoraggio grafico (interazione paziente – ventilatore), sia in termini di corrette terapie e di soluzione dei problemi. E’ necessario un progetto per formare gli infermieri più motivati al riconoscimento del monitoraggio grafico; a loro volta infermieri esperti potranno formare altri infermieri sotto la supervisione del medico responsabile del progetto. Questa competenza va poi inserita correttamente nella propria realtà clinica a beneficio dei pazienti.

Insomma lavoro e studio per tutti!

 

Bibliografia

Chacón E, et al. Nurses’ Detection of Ineffective Inspiratory Efforts During Mechanical Ventilation. Am J Crit Care. 2012 Jul;21(4).

Thille AW, et al. Patient-ventilator asynchrony during assisted mechanical ventilation. Intensive Care Med. 2006;32(10):1515-1522.

de Wit M, et al . Ineffective triggering predicts increased duration of mechanical ventilation. Crit Care Med. 2009;37(10):2740-2745.

Iperventilazione, ipocapnia e perfusione cerebrale.

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L’iperventilazione e l’ipocapnia spesso ci preoccupano nei pazienti con trauma cranico. Condivido con gli amici di ventilab un caso che alcune settimane fa si è presentato nella mia Terapia Intensiva.

Marino è un settantenne ricoverato in Terapia Intensiva per trauma cranico. Durante i primi 8-10 giorni ha ipertensione endocranica, è mantenuto sedato con ventilazione controllata. La frequenza respiratoria viene regolata per mantenere una PaCO2 di circa 35 mmHgAl termine di questo periodo, rimuove il monitoraggio della pressione intracranica ed inizia la ventilazione assistita (tramite tracheotomia) con pressione di supporto 8-12 cmH2O e PEEP 8 cmH2O.  Il GCS è 2+4+1(T), con la risposta motoria appena accennata. Fin qui tutto regolare, un paziente impegnativo ma che non pone dubbi rilevanti sulla scelta del miglior trattamento.

In pressione di supporto Marino ha un volume corrente di circa 550-650 ml (più alti di quelli che piacerebbero a me), indifferente alle variazioni di pressione di supporto e la frequenza respiratoria di 20-25/min. La PaO2 è di 100 mmHg con FIO2 0.4. Un caso come tanti, se non avessimo la PaCO2 a 25 mmHg con pH 7.53. Il dubbio che alcuni colleghi pongono è: in un trauma cranico recente, l’ipocapnia può determinare delle riduzioni della perfusione cerebrale e favorire l’insorgere di lesioni ischemiche?

Non possiamo dare risposte assolutamente certe a questa domanda (vedi post del 12/11/2010, 21/11/2010 e 12/01/2011), è possibile però farsi guidare da fisiologia e buon senso.

Se non costasse nulla mantenere un paziente normocapnico, lo faremmo volentieri. Il prezzo per mantenere Marino normocapnico invece è abbastanza pesante. La variazione del livello di pressione di supporto non modifica il volume corrente: ciò significa che il livello di ventilazione di Marino dipende dal suo drive respiratorio e non è indotto dalla nostra ventilazione. Alla riduzione della pressione di supporto si associa infatti un aumento dell’attività dei muscoli respiratori per mantenere proprio questo livello di ventilazione. L’unica misura efficace per ridurre la ventilazione in questi casi è la sedazione. Ma vogliamo sedare proprio ora un paziente che può avviarsi verso lo svezzamento dalla ventilazione meccanica?

La risposta può essere data se riusciamo a distinguere le cause dalle conseguenze.

L’aumento della concentrazione degli ioni idrogeno Hdetermina (con meccanismi tra loro indipendenti) sia iperventilazione che vasodilatazione cerebrale. Viceversa la riduzione della concentrazione degli  H+ causa bradipnea e vasocostrizione cerebrale (1-4).

Se l’iperventilazione viene imposta ad un paziente in ventilazione meccanica controllata, questa determinerà riduzione della PaCO2 e di conseguenza riduzione dalla PCO2 liquorale. A quest’ultima conseguirà una riduzione della concentrazione degli H+ e la conseguente vasocostrizione cerebrale.

Molto diverso è il caso dell’iperventilazione spontanea. In questa condizione dobbiamo quindi chiederci: perchè il paziente iperventila? Tra le cause più frequenti possono essere l’acidosi liquorale o l’ipossiemia (1). Marino non ha ipossiemia, quindi possiamo sospettare una elevata concentrazione liquorale di H+ (ricordiamo che ha avuto un recente trauma cranico). In questi casi il pericolo dell’iperventilazione non è la vasocostrizione ma le eventuali conseguenze sistemiche dell’alcalosi respiratoria (ad esempio sull’apparato cardiovascolare).

Marino è stato lasciato in ventilazione assistita senza sedazione, in circa due giorni si è portato stabilmente ad una PaCO2 di 35 mmHg. Dopo un altro paio di giorni è stato svezzato dalla ventilazione meccanica e nella settimana successiva è stato dimesso in riabilitazione con un GCS di 4+5+1(T) e senza la comparsa di lesioni ischemiche all’ultima  TC encefalo prima della dimissione dall’ospedale. Un caso? Fortuna? 

Guardiamo allora questa emogasanalisi arteriosa, appartiene ad una giovane donna con chetoacidosi diabetica accettata dal nostro Pronto Soccorso qualche tempo fa. Non ci sono dubbi che vi sia una acidosi metabolica grave. La paziente ha eseguito numerose emogasanalisi e nella prima ora ha sempre avuto una PaCO2 tra 9 e 12 mmHg.

In questo caso ti aspetteresti una grave vasocostrizione cerebrale? Se siamo coerenti con il ragionamento fatto fino ad ora, dovremmo dire di no: l’iperventilazione è secondaria alla stimolazione del chemocettore centrale del midollo allungato (e dei copri aortici) da parte di un eccesso di  H+.  La clinica ci conferma questa interpretazione: questa giovane signora aveva uno stato di coscienza quasi normale, mostrandosi solo un po’ confusa. Nell’arco di qualche ora è poi tornata ad essere anche ben orientata, un elemento che supporta tutto il ragionamento che abbiamo fatto fino ad ora.

Sicuramente le interazioni tra ventilazione e perfusione cerebrale non si esauriscono con queste considerazioni, ed ogni caso deve essere valutato con prudenza e considerando tutte le ipotesi plausibili. Bisogna però evitare di credere la sedazione sia sempre indispensabile in caso di iperventilazione con ipocapnia.

Possiamo concludere dicendo che, di norma, l’iperventilazione con ipocapnia:

- determina acutamente ipoperfusione cerebrale se è indotta dalla ventilazione controllata;

- può coesistere una sufficiente perfusione cerebrale quando il paziente è in respiro spontaneo o ventilazione assistita (correttamente impostata!).

Un saluto a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia. 

1) Williams K et al. Control of breathing during mechanical ventilation: who is the boss? Respir Care 2011; 2-127-36

2) Raichle ME, Stone HL. Cerebral blood flow autoregulation and graded hypercapnia. Eur Neurol 1971-1972; 6:1-5.

3) Lumb AB. Nunn’s Applied Respiratory Physiology. Chapter 5: Control of breathing, pp. 61-82. Churchill Livingstone, 7th edition (2010).

4) Froman C et al. Hyperventilation associated with low pH of cerebrospinal fluid after intracranial haemorrhage. Lancet. 1966; 1(7441):780-2.

Autociclaggio (autotriggering): il ruolo insostituibile del monitoraggio grafico della ventilazione meccanica.

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L’autociclaggio (o autotriggering) è la più semplice (ed eclatante) dimostrazione del ruolo insostituibile del monitoraggio grafico della ventilazione meccanica. Ventilab è sempre stato molto sensibile a questo tema, proponendo in passato casi clinici la cui interpretazione poteva essere molto complessa. Oggi ne proporrò uno forse più semplice, ma la cui importanza è decisiva per le sorti di un paziente ventilato.

Qui sotto puoi vedere il monitoraggio grafico di un paziente a cui è stata impostata una ventilazione in pressione di supporto. La schermata ha congelato 10 secondi di ventilazione meccanica in cui compaiono 4 respiri assistiti (quindi una frequenza respiratoria di circa 24/min) con un volume corrente di circa 0.5 l In alto la traccia gialla è la pressione delle vie aeree, in mezzo la traccia verde è il flusso, in basso la traccia azzurra del volume. Ricordiamo che quando il segnale di flusso è al di sopra della linea dello zero (la riga orizzontale bianca) c’è l’inspirazione, mentre al di sotto c’è l’espirazione. All’inizio di ogni inspirazione, la traccia di flusso non è verde ma ha un breve tratto violetto. Questo è il segnale che il nostro ventilatore (un Servo-i Maquet) ci offre per confermarci che il respiro è stato triggerato dal paziente (utilizzando il trigger a flusso). Ma il paziente sta veramente facendo una ventilazione a pressione di supporto? Ti ripresento la stessa immagine che abbiamo appeno visto, con un dettaglio in più.In questa immagine compare anche un’ultima traccia in basso, quella ottenuta dal catetere Edi per la NAVA (Neurally Adjusted Ventilator Assist). La NAVA è una modalità di ventilazione completamente differente da tutte quelle che conosciamo e di cui non abbiamo tempo di parlare oggi (le dedicherò comunque un post a breve). Per ora ci basta sapere che per poterla praticare si utilizza un particolare sondino naso-gastrico (il catetere Edi) nella cui parete è inserita una serie di elettrodi che devono essere posizionati all’altezza del diaframma. Grazie a questi elettrodi è possibile misurare l’attività elettrica del diaframma. Questo catetere consente quindi di avere una sorta di elettromiografia continua del diaframma.

Nell’immagine che vediamo sopra, il paziente ventila, come abbiamo detto, in pressione di supporto ed il catetere Edi ha solo una funzione di monitoraggio. Ma come è l’elettromiografia del diaframma? Piatta! Il diaframma dorme, è fermo, è meno attivo di un muscolo ingessato. Quindi il paziente non sta facendo, come crediamo, una ventilazione assistita ma una vera e propria ventilazione controllata, nonostante sul ventilatore sia stata scelta la modalità “pressione di supporto”. Il trigger non viene attivato dal paziente ma il ventilatore AUTOCICLA: si attiva cioè il trigger in assenza di segni di attività dei muscoli respiratori. Cosa attiva il trigger, se i muscoli respiratori sono fermi?  La causa più frequente è l’oscillazione dell’aria nell’apparato respiratorio determinata dalla trasmissione del battito cardiaco. Qui sotto ti presento un esempio che ho documentato alcuni anni fa.Puoi vedere in alto la traccia di flusso (in blu), in basso la pressione delle vie aeree (in rosso) e la pressione esofagea (in grigio). Anche in questo paziente era impostata sul ventilatore una pressione di supporto.

La fisiologia ci dice che la pressione esofagea si riduce quando si inspira. Qui invece vediamo che durante l’inspirazione la pressione nelle vie aeree aumenta ed insieme ad essa aumenta anche la pressione esofagea: un chiaro segno che il paziente viene insufflato passivamente.

Nella fase espiratoria diventano molto evidenti, sulla traccia di pressione esofagea, le oscillazioni trasmesse dal battito cardiaco. Queste oscillazioni cardiogeniche sono trasmesse, in misura molto più ridotta, anche sulla curva di pressione delle vie aeree sotto forma di piccole increspature (frecce rosse). Un trigger sufficientemente sensibile è in grado di essere attivato dal battito cardiaco. Lo vediamo bene nella figura: l‘ultima di queste oscillazioni innesca il trigger ed inizia l’insufflazione passiva del paziente. Un evidente caso di autociclaggio indotto dalle oscillazioni cardiogeniche.

Possiamo anche osservare un piccolo tranello: una piccola deflessione della pressione delle vie aeree all’iniziodell’insufflazione, che potrebbe essere erroneamente scambiato per un segno di triggeraggio  da parte del paziente, mentre inrealtà è il segno del battito che innesca l’autociclaggio.

Ritorniamo al monitoraggio con catetere Edi. Cosa dobbiamo aspettarci dal monitoraggio dell’attività elettrica diaframmatica durante un respiro realmente triggerato dal paziente? Ecco qui sotto la risposta.

Vediamo in questa schermata che il secondo dei quattro respiri è l’unico effettivamente triggerato dal paziente e non autociclato. Solo in questo respiro il diaframma si depolarizza, come si evidenzia bene sull’onda dell’elettromiografia diaframmatica fornita dal catetere Edi, mentre la traccia resta piatta quando in corrispondenza del primo, terzo e quarto atto respiratorio. Inoltre il secondo è anche l’unico respiro che mostra un segno di possibile triggeraggio sulla curva gialla di pressione delle vie aeree: una piccola incisura nella pressione associata alla immediata insufflazione. Come abbiamo visto nell’esempio precedente, quest’ultimo segno può essere fuorviante in caso di presenza di oscillazioni cardiogeniche trasmesse alle vie aeree.

Nel paziente che abbiamo studiato oggi, grazie al monitoraggio consentito dalla NAVA, abbiamo diagnosticato l’autociclaggio senza difficoltà ed in maniera eclatante.

Quali sono le conseguenze di un autociclaggio sistematico? L’abolizione della semplice attività di trigger è sufficiente a determinare una rilevante disfunzione diaframmatica indotta dalla ventilazione (1), una delle principali cause di svezzamento prolungato o impossibile  (2). Avremo sicuramente modo di riparlarne.

Prima di salutarci, come sempre il messaggio conclusivo:
- cerchiamo sempre l’incisura sulla pressione delle vie aeree all’inizio dell’insufflazione come segno di triggeraggio. Dubitiamo però di questa incisura se fa parte di una serie ritmica con il battito cardiaco;
- verifichiamo che le tracce di flusso e pressione delle vie aeree non appaiano chiaramente passive (vedi post del 8 maggio 2011)
- quando presente, sfruttiamo il monitoraggio dell’attività elettrica diaframmatica con il catetere Edi della NAVA.

Un caro saluto a tutti. A presto.

Bibliografia.

1) Sassoon CS et al. Assist–control mechanical ventilation attenuates ventilator-induced diaphragmatic dysfunction.  Am J Respir Crit Care Med 2004; 170:626-32

2) Jaber S et al. Ventilator-induced diaphragmatic dysfunction: human studies confirm animal model findings. Crit Care 2011, 15:206

ARDS e pressione di plateau: il limite di 30 cmH2O non può bastare.

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Oggi riparliamo di ARDS, una delle malattie polmonari acute in cui una buona ventilazione meccanica può fare la differenza tra la vita e la morte. Sarà con noi la signora Pina, una donna di 68 anni che circa un mese fa è stata ricovera in Terapia Intensiva per una ARDS secondaria ad una polmonite comunitaria (qui di fianco puoi vedere la radiografia del torace al ricovero in Terapia Intensiva).  L’insufficienza respiratoria è grave (PaO2/FIO2 75 mmHg), ma in 48 ore si ottiene un buon miglioramento della funzione polmonare  (PaO2/FIO2 190 mmHg) senza problemi di ventilazione meccanica. Qui però il miglioramento si ferma e dopo circa una settimana vediamo una progressione degli infiltrati polmonari ed una nuova grave ipossiemia. Si cambiano gli antibiotici per coprire i germi ospedalieri e si inizia ventilazione protettiva con PCV-VG (vedi post del 27/11/2011) con volume corrente di 280 ml, frequenza respiratoria 33/min, PEEP 10 cmH2O, FIO2 0.8.  L’emogasanalisi arteriosa è la seguente: PaO2 83 mmHg, pH 7.43, PaCO2 64 mmHg. E come sempre prestiamo attenzione al monitoraggio della pressione delle vie aeree durante una fase di ventilazione a volume controllato: ecco il tracciato.
Osserviamo che durante la breve pausa di fine inspirazione inserita nella ventilazione la pressione delle vie aeree è 25 cmH2O, quindi la pressione di plateau sarà un po’ più bassa, ben al di sotto del limite massimo suggerito di 30 cmH2O. Infatti la pressione di plateau dopo 3 secondi di occlusione delle vie aeree è di 22 cmH2O, come puoi vedere nell’immagine qui sotto.

Tutto bene? Possiamo per valutare se possiamo aumentare la PEEP e quindi favorire una miglior ossigenazione?

Nemmeno per sogno, qui probabilmente dobbiamo ridurre ancora di più le pressioni nelle vie aeree. Infatti durante la ventilazione in volume controllato è quello di osservare la forma della salita della pressione nelle vie aeree. In altre parole si può fare una valutazione “occhiometrica” dello stress index (vedi post del 15/08/2011 e del 28/08/2011). In breve, la pressione delle vie aeree (nei pazienti in volume controllato passivi alla ventilazione) deve crescere linearmente, se invece la pendenza continua ad aumentare durante l’insufflazione dobbiamo temere che ci possa essere iperinflazione e stress. Un occhio allenato può aver già notato una condizione di potenziale pericolo nella signora Pina, nonostante le basse pressioni nelle vie aeree. Questo comportamento è reso più evidente nell’immagine sottostante:

Abbiamo tracciato segmenti lineari (tratteggiati in grigio) sul tracciato di pressione delle vie aeree che hai visto all’inizio del post. La pendenza di questi segmenti è uguale alla pendenza della parte iniziale della salita della pressione delle vie aeree (escluso il primo pezzettino quasi verticale): in questo modo si vede benissimo che la parte finale della salita della pressione ha una pendenza più ripida della parte iniziale. Questo è un possibile segno di sovradistensione polmonare, indipendentemente dal livello di pressione di plateau.

Come sempre, in questi casi abbiamo misurato la pressione esofagea ed ecco cosa ci ha detto:

La pressione esofagea è la traccia grigia, la traccia rossa è la pressione delle vie aeree. La pressione che vedi all’inizio della traccia è la parte finale di un’occlusione di fine espirazione, la pressione verso la fine della traccia è il plateau ottenuto con l’occlusione a fine inspirazione. Vediamo subito che la pressione di plateau delle vie aeree è bassa (i 22 cmH2O già visti sopra), ma è anche molto bassa la pressione esofagea corrispondente (3 cmH2O). La pressione transpolmonare (stimata con la pressione esofagea) è la differenza tra le due, cioè 19 cmH2O. Sappiamo che la pressione esofagea può sovrastimare la pressione pleurica di 5 cmH2O (in media) (1), quindi la pressione transpolmonare “vera” (pressione alveolare – pressione pleurica) potrebbe essere intorno ai 25 cmH2O (vedi post del 07/02/2012). Questi valori di pressione transpolmonare sono tutt’altro che bassi, soprattutto se si associano ad altri segni di sovradistensione (come lo stress index): due indizi fanno una prova. Tralascio (per esigenze di spazio) la valutazione della relazione statica pressione volume e la scelta della best PEEP, ed arriviamo subito alla strategia ventilatoria conseguente alle riflessioni che abbiamo fatto finora.

Per ridurre le pressioni nelle vie aeree non possiamo ridurre ulteriormente il volume corrente, quindi abbiamo agito sulla PEEP (sulla guida della valutazione della driving pressure a diverse PEEP, vedi post del 10/04/2011) riducendola a 6 cmH2O.

Il risultato è stato questo:

una riduzione della pressione di plateau da 22 a 15 cmH2O e riduzione della pressione transpolmonare (stimata con la pressione esofagea) da 19 a 13 cmH2O. Inoltre lo stesso volume corrente è stato ottenuto con una minore differenza di pressione tra fine inspirazione e fine espirazione (driving pressure). Quando avevamo 10 cmH2O di PEEP, per insufflare 275 ml dovevamo fare salire la pressione da 10 cmH2O (il valore di PEEP) a 22 cmH2O (la pressione di plateau): 12 cmH2O di differenza. Con 6 cmH2O di PEEP, questa differenza si riduce a 9 cmH2O (15 – 6 cmH2O): lo stesso volume ottenuto con meno pressione vuol dire miglioramento della compliance con la riduzione della PEEP.

Ed i segni di sovradistensione sulla curva di pressione? Eccome come sono diventati:

Sono praticamente scomparsi: insomma, un successo dal punto di vista della ventilazione protettiva valutata sulla meccanica respiratoria.

E il risultato all’emogasanalisi? Niente di eccezionale: dopo una decina di ore PaO2 77 mmHg, pH 7.46, PaCO2 72 mmHg, FIO0.7. Abbiamo accettato, come sempre, questi valori ampiamente sufficienti per sopravvivere (anche se esteticamente brutti) ed abbiamo continuato sulla nostra strada.

Nella settimana successiva miglioramenti lentissimi, abbiamo sospeso la sedazione passando in APRV e quindi gradualmente in PSV. Quando eravamo già pronti alla tracheotomia (dopo 15 giorni di intubazione), abbiamo fatto un trial di respiro spontaneo che la paziente ha tollerato, pur persistendo una chiara ipossiemia (PaO2/FIO141 mmHg). E’ stato comunque deciso di procedere all’estubazione, proseguendo con ventilazione noninvasiva. Un po’ di bravura, un po’ di fortuna una settimana dopo la paziente è stata dimessa dalla Terapia Intensiva in Riabilitazione…

Questa lunga storia ci ribadisce alcuni punti importanti nella cura dei pazienti con ARDS:

-  la ventilazione deve essere guidata dalla necessità di essere protettivi e non di migliorare l’emogasanalisi (per vivere è più che sufficiente una PaOdi 55 mmHg e l’ipercapnia non è un problema in assenza di gravissima acidosi);

- la pressione di plateau inferiore a 30 cmH2O non è da solo sufficiente sufficiente per gestire la ventilazione protettiva nei pazienti con le forme più gravi di ARDS;

- monitoraggio grafico della ventilazione, stress index (misurato o “occhimetrico”), scelta della minor driving pressure  ed eventualmente pressione esofagea sono irrinunciabili come guida della ventilazione nei pazienti con ARDS grave e pressioni di plateau maggiori o uguali a 25 cmH2O.

Un caro saluto a tutti.

 

Bibliografia.

1) Talmor D et al. Esophageal and transpulmonary pressures in acute respiratory failure. Crit Care Med 2006; 34:1389-94

 

PS: sarò assente per una dozzina di giorni, risponderò volentieri ai commenti appena posso.

Lo svezzamento (weaning) dalla ventilazione meccanica: quando e come.

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Lo svezzamento (o weaning) dalla ventilazione meccanica è l’obiettivo che ci poniamo in tutti i pazienti che iniziamo a ventilare. E’ però importante giungere allo svezzamento dalla ventilazione meccanica nei tempi e nei modi più efficaci.

Oggi vorrei presentare il caso del signor Paolo, un uomo di  68 anni ricoverato in Terapia Intensiva per una polmonite che ha complicato un’emorragia cerebrale. Dopo un paio di settimane dal ricovero è tracheotomizzato, apre gli occhi ed a tratti è in grado di dimostrare contenuti di coscienza. E’ ventilato in NAVA (Neurally Adjusted Ventilatory Assist), una modalità di ventilazione assistita guidata dall’attività elettrica diaframmatica modulando durante la giornata il livello di assistenza inspiratoria. Ha una PaO2 di 98 mmHg con PEEP 8 cmH2O e FIO2 0.5, è normocapnico (PaCO2 38 mmHg) e sempre moderatamente tachipnoico (25-35 respiri/minuto) con volume corrente spesso tra i 300 ed i 350 ml.

Poniamoci due domande: 1) è ora di iniziare lo svezzamento dalla ventilazione meccanica? 2) Se sì, come procedere?

Quando iniziare lo svezzamento dalla ventilazione meccanica.

Il primo punto è capire se un paziente può essere preso in considerazione per il weaning. Se non ci sono le condizioni per poter pensare allo svezzamento, non ci si deve nemmeno pensare. Non ritengo sia corretto pensare che il weaning inizi nel momento in cui si intuba un paziente. Pensiamo, ad esempio, ai casi di trauma cranico grave, di ARDS grave, di shock settico con insufficienza multiorgano: nella fase più acuta il weaning deve essere dimenticato e ci si deve concentrare sul trattamento della fase acuta della malattia.

Non si deve però indugiare quando si intravedono le condizioni per poter eventualmente sospendere la ventilazione meccanica. E queste condizioni ci sono se un paziente durante la ventilazione meccanica riesce a mantenere una sufficiente ossigenazione del sangue (una saturazione arteriosa non inferiore a 90% con PaO2/FIO2 > 150 mmHg ed una PEEP non superiore ad 8 cmH2O), senza segni che possano far ipotizzare un eccessivo carico o debolezza dei muscoli respiratori (la frequenza respiratoria è inferiore a circa 35/min, il volume corrente è di almeno 300-350 ml e non vi è acidosi respiratoria). Oltre a questo evidentemente dobbiamo considerare che non vi siano segni di shock o gravi aritmie e che non vi sia in corso una sedazione con un paziente non risvegliabile.

Dobbiamo poi valutare se stiamo decidendo fare un’estubazione o se pensiamo di fare respirare spontaneamente un paziente tracheotomizzato: solo nel primo caso sono indispensabili la presenza di tosse e deglutizioneefficaci ed una ridottaquantità di secrezioni bronchiali.

Quindi cosa concludiamo per il signor Paolo? Io non ho avuto dubbi, ed ho scritto sulla cartella clinica come programma della giornata una sola parola: “weaning”.

Come si fa il weaning.

Semplificando, “fare weaning” vuol dire far respirare il paziente da solo e vedere cosa succede. Nulla di più, nulla di meno. Ritengo inutili perdite di tempo atteggiamenti più prudenti, come ad esempio la progressiva riduzione di giorno in giorno del livello di assistenza respiratoria fino ad arrivare a pochi cmH2O di pressione di supporto.

Si valuta la capacità del paziente di respirare da solo con un “trial di respiro spontaneo“, che può essere effettuato in 3 modi diversi, tra loro alternativi: 1) si distacca il paziente dal ventilatore e lo si mette a respirare con un supplemento di ossigeno e l’umidificazione dei gas (tubo a T); 2) si lascia il paziente connesso al ventilatore CPAP < 5 cmH2O; 3) si ventila il paziente con un basso livello di pressione di supporto (ad esempio 5 cmH2O) senza PEEP.

I tre metodi non sono equivalenti. Non esistono evidenze chiare per convincerci che uno dei tre approcci sia migliore degli altri due, deve essere il buon senso e l’esperienza clinica che ci guida nella scelta. Posso dire quello che faccio io, a puro titolo di esempio e di contributo alla discussione: nel paziente trachetomizzato preferisco il tubo a T, magari preceduto da un breve periodo di CPAP, giusto per capire se è in grado di sopportare la respirazione spontanea; nel paziente intubato o utilizzo il tubo a T oppure scelgo una pressione di supporto di 5 cmH2O se ho un paziente fragile con elevato spazio morto (filtro HME) e/o un tubo tracheale di piccolo diametro.

Qualunque metodo si scelga, è importante definire degli obiettivi chiari per il trial di respiro spontaneo. Il trial sarà superato se per 30 minuti non si saranno presentati i criteri di fallimento (vedi sotto). La durata del trial di respiro spontaneo è importante: nel mio reparto facciamo suonare una sveglia al trentesimo minuto dall’inizio del trial per ricordarci che in quel momento dobbiamo prendere una decisione (e scriverla sulla cartella clinica), soprattutto se il paziente è intubato. Bisogna evitare di dimenticarsi il paziente con il tubo a T perchè questa modalità di respirazione è piuttosto faticosa e se si prolunga si può generare fatica anche in pazienti estubabili, ritenere erroneamente fallito il test e quindi mantenere inutilmente la ventilazione meccanica.

Un paziente potrà essere estubato (o il respiro spontaneo proseguito nei pazienti trachetomizzati) se si termineranno i 30 minuti di trial di respiro spontaneo senza ipossiemia (SaO2 > 88-90 % con ossigenoterapia), se non si sviluppa ipercapnia ed acidosi, se la frequenza respiratoria è inferiore a 35/min (circa), se il paziente non lamente dispnea e non utilizza i muscoli accessori della ventilazione (oltre a mantenere una stabilità cardiocircolatoria). Se il trial di respiro spontaneo fallisce, bisogna riprendere una buona ventilazione meccanica adeguando il livello di assistenza respiratoria alle necessità del paziente. E il giorno dopo si riproverà il trial di respiro spontaneo, sempre, ostinatamente (se persistono le condizioni, ovviamente).

I criteri di fallimento del trial di respiro spontaneo devono essere elastici e devono essere adattati sia alle caratteristiche dei singoli pazienti che alle strategie che si attueranno dopo l’estubazione (ad esempio la ventilazione non-invasiva).

E il nostro Paolo come è andato a finire? Il primo giorno in cui è stato deconnesso dal ventilatore è rimasto 12 ore in respiro spontaneo, venendo ricollegato solo la sera per la comparsa di tachipnea. Anche il secondo giorno è stato trascorso quasi tutto in respiro spontaneo, richiedendo nella notte un periodo di pressione di supporto. Dal terzo giorno è rimasto in respiro spontaneo ininterrottamente per una settimana ed ora è pronto alla dimissione in riabilitazione. In questa fase è opportuno evitare periodi di ventilazione meccanica “preventivi”, fatti a scopo pseudo-caritatevole: prolungheremmo inutilmente il periodo di ventilazione, senza capire se il paziente ne potrà fare veramente a meno.

Per concludere, possiamo sottolineare i punti più importanti del weaning dalla ventilazione meccanica:

  1. tutti i pazienti devono essere valutati tutti i giorni per vedere se possono essere considerati per lo svezzamento (e bisogna togliere il più presto possibile i sedativi per dare loro questa opportunità!!!);
  2. quando un paziente è pronto per il weaning, DEVE ESSERE MESSO A RESPIRARE DA SOLO (o quasi) per circa mezzora facendo un trial di respiro spontaneo;
  3. al termine del trial di respiro spontaneo bisogna per forza decidere qualcosa: se il trial è riuscito, il paziente DEVE ESSERE LIBERATO DALLA VENTILAZIONE MECCANICA, se il trial è fallito si deve riprendere la ventilazione meccanica e riprovare il giorno dopo;
  4. ogni fallimento del respiro spontaneo deve essere visto solo come una tappa di avvicinamento all’obiettivo finale. Non deve diventare il pretesto per la rinuncia al weaning nei giorni successivi.

Puoi trovare qui una sintesi di evidenze e raccomandazioni sul weaning: Boles JM et al. Weaning from mechanical ventilation. Eur Respir J 2007; 29:1033-5.

Un caro saluto a tutti.

Rise time (o tempo di salita o rampa): come regolarlo durante la ventilazione assistita.

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Quando accediamo il ventilatore per iniziare la ventilazione meccanica di un nuovo paziente, siamo agevolati dall’impostazione di default che ci viene offerta. E’ vero che il setting del ventilatore deve essere deciso caso per caso, ma, quando dobbiamo agire in fretta, è certamente di aiuto iniziare la ventilazione meccanica con un’impostazione ragionevole per la maggior parte dei pazienti. E , dopo pochi minuti, ragionando con calma, possiamo rendere più personalizzata la regolazione dei comandi della ventilazione.

In questo processo però ci sono comandi “forti” e comandi “deboli”. Non vi è dubbio che volume corrente o pressione da applicare, PEEP e, quando richiesto, frequenza respiratoria siano comandi “forti”: nessuno di noi si dimentica mai di adeguarli. Ma accanto a questi vi sono dei comandi “deboli”, cioè che non sempre prendiamo in considerazione e che magari tendiamo a lasciare con l’impostazione di default. Tra questi, il rise time (o tempo di salita o rampa, sono tutti la stessa cosa).

Cosa è il rise time.

Per capire bene cosa è il rise time, ricordiamo brevemente i principi di funzionamento delle due famiglie di ventilazione meccanica che utilizziamo ogni giorno: la pressometrica e la volumetrica.

Nelle ventilazioni pressometriche il comando che diamo al ventilatore è di raggiungere e mantenere una certa pressione (traccia gialla in alto nella figura 1). Viene quindi generato un flusso decrescente, le cui caratteristiche dipendono dalla meccanica respiratoria del paziente ed eventualmente dalla sua interazione con il ventilatore ventilatore.

Figura 1

Nelle ventilazioni volumetriche invece il comando che diamo al ventilatore è quello di raggiungere e mantenere un certo flusso (traccia verde in basso nella figura 2). In questo caso sarà la curva di pressione che dipende dalle stesse variabili che modificano il flusso nelle ventilazioni pressometriche.

Figura 2

Abbiamo di certo notato che le curve che comandano la ventilazione (la pressione nelle pressometriche ed il flusso nelle volumetriche) hanno in comune una cosa: la forma rettangolare.

Il rise time è il tempo impiegato dalla pressione per raggiungere, dall’inizio dell’inspirazione, il proprio valore finale (quello che noi abbiamo impostato). Questo nelle ventilazioni pressometriche. Mentre nelle ventilazioni volumetriche è il tempo necessario per raggiungere il valore di flusso costante dal momento in cui inizia il flusso inspiratorio. In altre parole è il tempo impiegato dalla curva che “comanda” la ventilazione per arrivare da zero al proprio valore massimo, su cui poi si stabilizza.

Come regolare il rise time.

Da quello che abbiamo appena detto il tempo di salita esprime la rapidità con cui inizia l’insufflazione. La regolazione del rise time è importante soprattutto nei pazienti che interagiscono con il ventilatore, mentre è molto meno importante nei pazienti passivi. Poichè le ventilazioni assistite sono più spesso pressometriche, tratteremo queste nel dettaglio.

Se tu fossi un paziente con insufficienza respiratoria, vorresti che l’aria ti fosse erogata lentamente o velocemente? Per analogia, quando hai molta sete, desideri bere lentamente o velocemente? Penso che tutti siamo d’accordo sulla risposta: quando hai sete (d’aria o di acqua) preferisci avere subito ciò che desideri. Quindi il rise time deve essere impostato breve. Esistono evidenze che ci mostrano che rise time lento aumenta lavoro respiratorio ed asincronie (1-5). Dobbiamo stare attenti perchè alcuni ventilatori che di default impostano un tempo di salita  piuttosto lento: in questi casi è bene modificare subito l’impostazione del rise time.

Una rampa troppo veloce genere disagio al paziente ed è mal tollerata, il paziente viene investito da un flusso di aria superiore a quello che riesce ad inspirare (come quando si ha sete e si beve però troppo velocemente: a volte l’acqua va di traverso).

Il rise time si misura in frazioni di secondo. Qualche ventilatore ha un’impostazione molto intuitiva: bisogna scegliere il tempo di rise time (spesso in millisecondi), qualche altro ci complica leggermente la vita perchè lo esprime come percentuale del tempo inspiratorio. Comunque sia, più è basso il numero, più veloce è il rise time. Esistono poi dei ventilatori (molto simpatici….) che indicano con 100% un rise time istantaneo, mentre se la percentuale si abbassa il tempo di salita aumenta: in questo caso, più è basso è il numero, più lento è il rise time. Bisogna quindi conoscere i propri ventilatori.

Il mio approccio personale al rise time è questo: imposto inizialmente un tempo di salita leggermente più lento rispetto alla massima velocità (ad esempio 50-100 millisecondi o 1-2% del tempo inspiratorio, a seconda del ventilatore che utilizzo). Quindi mi regolo in base alla risposta clinica.

Come capire se il rise time è impostato correttamente.

Figura 3

L’unico modo di capire se il rise time  è impostato correttamente o meno, è quello di guardare il monitoraggio grafico e, se collaborante, chiedere al paziente. Nella figura 3 vediamo schematizzata la curva di pressione di una inspirazione in una ventilazione pressometrica (potrebbe essere una pressione di supporto o una assistita-controllata pressometrica). La traccia rossa continua rappresenta la curva in un paziente ben assistito con un rise time veloce e appropriato. Quando la pressione sale lentamente (figura 3, fase B, linea tratteggiata, freccia con il numero 2) potrebbe essere corretto rendere il tempo di salita più veloce. Se poi il paziente fosse anche dispnoico o avesse bassi volumi correnti ed una frequenza respiratoria elevata, prima di aumentare il supporto inspiratorio diventerebbe importante accelerare la rampa.

Viceversa se notiamo un picco di pressione all’inizio dell’insufflazione (fase B, linea tratteggiata, freccia con il numero 1 nella figura 3) è opportuno rallentare il rise time. Se il paziente è collaborante, ci riferirà probabilmente un certo livello di discomfort legato all’eccesso di aria che lo investe all’inizio dell’inspirazione. Se la rampa è troppo veloce, a volte si vede la curva di pressione che presenta un inizia a denti di sega decrescenti.

Prima di concludere lascio l’immagine senza commento di un rise time, per chi ha il piacere di provare a ragionarci sopra. I commenti dei lettori sono i benvenuti.

In conclusione, abbiamo capito che è importante regolare bene anche il rise time (o tempo di salita o rampa):

- un rise time troppo lungo (=lento) determina un aumento delle asincronie e del lavoro respiratorio, ed un minor volume corrente;

- un tempo di salita troppo rapido (=breve) può dare discomfort;

- il monitoraggio grafico è essenziale per capire se l’impostazione della rampa è appropriata: il ritardato raggiungimento della pressione impostata richiede un tempo di salita più breve, mentre un rise time più lungo è opportuno se vi sono uno o più piccoli picchi sulla parte iniziale della traccia di pressione.

Un augurio di Buona Pasqua a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia.

1) Bonmarchand G et al. Increased initial flow rate reduces inspiratory work of breathing during pressure support ventilation in patients with exacerbation of chronic obstructive pulmonary disease. Intensive Care Med 1996;22:1147-54

2) Bonmarchand G et al. Effects of pressure ramp slope values on the work of breathing during pressure support ventilation in restrictive patients. Criti Care Med 1999;27:715-22

3) Chiumello D et al. The effects of pressurization rate on breathing pattern, work of breathing, gas exchange and patient comfort in pressure support ventilation. Eur Respir J 2001;18:107-14

4) Costa R et al. Influence of ventilator settings on patient-ventilator synchrony during pressure support ventilation with different interfaces. Intensive Care Med 2010;36:1363-70

5) Gonzales JF et al. Comparing the effects of rise time and inspiratory cycling criteria on six different mechanical ventilators. Respir Care 2013;58:465-73


Rise time (tempo di salita/rampa) e monitoraggio grafico della ventilazione meccanica.

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Nell’ultimo post abbiamo parlato del rise time (clicca qui per leggerlo). Alla fine del post è stata inserita l’immagine, senza commento, di un atto respiratorio che poteva far intuire quale fosse stata l’impostazione del rise time. Visto l’interesse per questo esercizio, oggi commentiamo insieme l’immagine proposta, cercando di cogliere le informazioni che ci può dare.

Per farlo utilizziamo il metodo “ventilab, l’approccio sistematico ABCDEF, che con semplicità ci può aiutare a fare una lettura sistematica delle curve del monitoraggio grafico della ventilazione meccanica  (vedi post del 13/08/2010, 20/08/2010, 29/08/2010, 12/03/2011, 08/05/2011, 20/02/2012, 29/02/2012).

La “A” del metodo “ABCDEF” ci dice di scegliere le due curve di monitoraggio che offrono informazioni importanti: queste sono le curve di pressione (cioè il grafico pressione-tempo) e di flusso (il grafico flusso-tempo).  Qui di seguito riproduciamo la schermata un po’ più ampia di quella presentata nel post del 30 marzo) con le due curve che ci interessano.

La qualità non è eccelsa, ma riconosciamo in alto la curva di pressione ed in basso quella di flusso. Le tacche sull’asse del tempo sono alla distanza di 1 secondo l’una dall’altra.

Il punto “B” ci dice di identificare la fase inspiratoria sulla curva di flusso, cioè quella in cui la traccia è al di sopra della linea dello zero. La “C” ricorda di osservare le variazioni della pressione delle vie aeree durante l’inspirazione: il rise time è un evento che si verifica all’inizio dell’inspirazione, quindi lo identificheremo in questa fase dell’analisi del monitoraggio grafico. Ed ecco la stessa immagine di prima, “attrezzata” per i commenti per ai punti “B” e “C”.

I due segmenti rossi delimitano la fase inspiratoria sulla traccia di flusso e sono stati proiettati su quella di pressione. La rampa all’inizio del flusso inspiratorio è il risultato dell’impostazione del rise time: in questo caso il tempo di salita è molto lento e copre un terzo dell’inspirazione, come messo in evidenza dal segmento bianco sotto la traccia di flusso. Trascorso il tempo di salita, durante il quale il flusso è crescente, il flusso inspiratorio diventa costante, segno che siamo di fronte a una ventilazione a volume controllato.

Durante il lungo rise time anche la pressione aumenta lentamenteSe facessimo una ventilazione assistita-controllata (cioè se il paziente fosse attivo), con una simile impostazione corriamo il rischio di assistere in maniera insufficiente il paziente durante la fase iniziale dell’inspirazione. Nel nostro caso non abbiamo questo problema, perchè il paziente sembra passivo durante l’insufflazione: questo è intuibile per il fatto che la curva di pressione cresce in maniera lineare e costante durante la fase di flusso inspiratorio costante. Quando invece il paziente è attivo ed insoddisfatto del flusso inspiratorio erogato dal ventilatore, si nota una concavità verso l’alto nella curva di pressione, come nell’esempio riprodotto qui a lato.

Il tempo di salità rapido è sempre preferibile ad uno lento: può essere un aiuto importante quanto il paziente inizia a respirare attivamente. Come descritto nel post precedente, è però opportuno limitare la velocità della rampa nei casi in cui questa si dimostri eccessiva: questo lo capiamo o per il discomfort manifestato dal paziente o, ancora una volta, grazie al monitoraggio grafico che mostra delle increspature sulla parte iniziale delle curve di flusso e pressione. Qui sotto puoi vedere un esempio durante ventilazione con pressione di supporto.

Sul rise time della nostra immagine iniziale, abbiamo detto tutto. Ci è bastato il “ABC”. Per completezza proseguiamo nell’analisi delle curve, visto che le fasi successive hanno attirato l’attenzione degli amici di ventilab. La “D” ci ricorda di valutare l’inizio dell’attivazione dei muscoli espiratori: nel caso che stiamo commentando non si osserva nulla di particolare, quindi passiamo subito alla fase “E”, cioè l’espirazione, che invece si presta ad alcune considerazioni. Rivediamo l’immagine qui sotto, preparata per il commento all’espirazione:

Vediamo che il flusso espiratorio inizia con un picco, come è normale che sia, ma successivamente, invece di osservare il decadimento esponenziale del flusso (tipico di una normale espirazione passiva), osserviamo delle cose “strane”. Nella porzione con le linee verticali punteggiate bianche ed arancioni vediamo il flusso espiratorio che oscilla sincrono con le oscillazioni sulla pressione delle vie aeree. Quando la pressione scende, il flusso espiratorio aumenta un po’, quando la pressione risale il flusso espiratorio tende a ridursi. Questi non sono sforzi inefficaci: 1) la forma non è tipica; 2) sono troppo ravvicinati (3 oscillazioni in mezzo secondo, quindi ad una frequenza di 360/minuto, ben diversa da quelle della respirazione spontanea); 3) sono all’inizio dell’espirazione; 4) le variazioni di pressione sono opposte a quelle che si associano agli sforzi inefficaci. Questi fenomeni sono prodotti dal ventilatore (un Servo-i Maquet), un’ottima macchina che in alcune circostanze (l’ho notato soprattutto nei pazienti flusso-limitati) lavora in questo modo per stabilizzare la pressione nelle vie aeree durante l’espirazione. Questa è la spiegazione suggerita da un’attenta lettura del monitoraggio grafico.

La cosa veramente interessante è il flusso espiratorio, che, dopo picco ed oscillazioni, continua con un andamento quasi parallelo all’asse del tempo: è un paziente con un’espirazione lentissima e per questo incompleta, secondaria ad una grave flow-limitation (è un’immagine tratta dall’archivio dello studio targato “ventilab“ su PEEP intrinseca e flow-limitation). Infatti il flusso espiratorio non è terminato quando inizia l’inspirazione. Un’altra informazione preziosa del monitoraggio grafico. A differenza di quanto osserviamo in questo caso, i pazienti con espirazione attiva (e senza flow limitation) presentano invece alti valori di flusso espiratorio durante tutta l’espirazione.

L’ultimo punto “F” riguarda l’attivazione dei muscoli inspiratori, che si può intuire solo sul respiro precedente a quello che stiamo analizzando, con un’incisura verso il basso nella curva di pressione.

In conclusione, da una piccola curva, abbiamo estratto molte informazioni. Altre se ne possono cogliere, ma penso che il post sia già abbastanza complesso.

Prima di salutare tutti gli amici di ventilab, un sentito ringraziamento a tutti quelli che si sono sbilanciati, provando ad affrontare la lettura di queste curve tutt’altro che facili: onore al merito.

Ciao a tutti, alla prossima.

Ventilazione meccanica ed emodinamica: cosa fare (e perchè) quando l’ipotensione complica la ventilazione meccanica.

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Ieri notte abbiamo intubato la signora Rosa, una settantenne ricoverata in Terapia Intensiva da alcuni giorni con una sepsi grave secondaria ad infezione delle vie urinarie.
All’inizio della ventilazione meccanica abbiamo avuto una brusca ipotensione, un’esperienza che penso tutti i lettori di ventilab ben conoscono. In questo caso non ci sono state gravi conseguenze, altre volte ho visto anche situazioni veramente drammatiche.
Perchè l’ipotensione quando iniziamo la ventilazione meccanica? Come affrontarla efficacemente?
L’interazione cuore-polmone è un argomento assolutamente affascinante ma anche terribilmente complesso che so bene di non poter affrontare in un post. Metteremo a fuoco quindi solo una parte del problema, cioè quella che ci porterà alla soluzione pratica del problema dell’ipotensione durante ventilazione meccanica.
Chi ama protocolli, procedure aziendali, flow-charts e bundles può saltare direttamente alle conclusioni (clicca qui).
Per tutti gli altri, un piccolo sacrifico in più: lo sforzo di capire per agire nel modo più appropriato nelle diverse situazioni, spesso complesse, che caratterizzazo l’unicità di ciascun paziente.

Il problema.

L’ipotensione.
Per prima cosa dobbiamo capire che l’ipotensione associata alla ventilazione meccanica può essere il segno di una riduzione della gittata cardiaca (cardiac output, CO). Ricordiamo che la pressione arteriosa sistemica si riduce se diminuiscono o la gittata cardiaca o le resistenze vascolari sistemiche (systemic vascular resistance, SVR) (o entrambe). Infatti quando si riduce la quantità di sangue che viene immessa nelle arterie (cioè la gittata cardiaca) diminuisce la pressione che il sangue esercita nelle arterie. Allo stesso modo se si ha vasodilatazione (cioè riduzione delle resistenze vascolari sistemiche) si riduce la pressione nei vasi arteriosi. Questo concetto è ben sintetizzato nella formula PA = CO x SVR.
Diversi meccanismi concorrono alla riduzione di gittata cardiaca durante ventilazione meccanica, quelli con le maggiori implicazioni terapeutiche sono l’aumento della pressione intratoracica, la sedazione e le alterazioni dell’equilibrio acido-base. Per oggi prendiamo in esame solo il primo di questi tre.

Pressione positiva intratoracica e gittata cardiaca.
Durante l’inspirazione spontanea la pressione intratoracica si riduce e questo si riflette in una riduzione della pressione venosa centrale (PVC). Al contrario, l’inspirazione durante ventilazione meccanica aumenta la pressione intratoracica e di conseguenza anche la pressione venosa centrale.
La relazione tra pressione venosa centrale e ritorno venoso è stata illustrata da Arthur Guyton quasi sessanta anni fa. Sebbene il modello di Guyton sia stato messo in discussione dal punto di vista teorico, le sue implicazioni pratiche sono però tuttora considerate valide anche dai suoi critici.

Da questa figura si può facilmente vedere come vi sia un’associazione tra aumento della PVC e riduzione del ritorno venoso quando la pressione venosa centrale varia tra la pressione atmosferica (Atm) e la pressione sistemica media (Pms), concetto a cui accenneremo tra poco. Sappiamo che, in condizioni di equilibrio, gittata cardiaca e ritorno venoso devono essere uguali: non può esistere per più di pochi battiti cardiaci una differenza tra il sangue che entra e quello che esce dal cuore. Quindi riduzione del ritorno venoso e riduzione della gitatta cardiaca sono la stessa cosa.

Nella figura a lato è schematizzato l’apparato cardiocircolatorio e la parte intratoracica è all’interno del rettangolo rosso. Il ritorno venoso è determinato dalla differenza di pressione (ΔP) tra le vene post-capillari e la PVC (oltre che dalle resistenze venose). Si ritiene che la pressione che troviamo nelle vene postcapillari sia molto simile alla pressione sistemica media, cioè la pressione che è presente nell’apparato cardiocircolatorio in assenza di flusso. E’ quindi evidente che l’aumento della PVC, riducendo il ΔP=Pms-PVC, può associarsi alla diminuzione del ritorno venoso e di conseguenza della portata cardiaca. A questo punto diventa evidente tutto quello che dobbiamo fare per mantenere costante il ritorno venoso: 1) aumentare del meno possibile la PVC e 2) aumentare la pressione nelle vene post-capillari, cioè la pressione sistemica media. In questo modo ripristineremo il ΔP che ci serve per mantenere un buon ritorno venoso.
Vediamo adesso come applicare questi concetti nella pratica clinica.

La soluzione.

Limitare l’aumento della PVC.
Per limitare l’aumento della PVC dobbiamo limitare l’aumento delle pressione intratoraciche, quindi limitare la pressione intrapolmonare. Il fattore più importante a questo scopo è ridurre al minimo indispensabile (o eliminare, nei casi più gravi) la PEEP. In questo caso per PEEP dobbiamo intendere la PEEP totale, cioè la somma di PEEP e PEEP intrinseca (PEEPi), che possiamo misurare con la manovra di occlusione delle vie aeree a fine espirazione (vedi post del 10/04/2011). Agendo sul ventilatore dovremo quindi ridurre o eliminare la PEEP. Per ridurre la PEEPi (quando presente), dobbiamo invece ridurre volume corrente, frequenza respiratoria e rapporto I:E (esempio 1:3 o 1:4).

Aumentare la pressione sistemica media.
La pressione sistemica media è determinata dallo “stressed volume”, cioè da quel volume di sangue che genera pressione nei vasi sanguigni. Un vaso sanguigno completamente vuoto ha al proprio interno una pressione transmurale di 0 mmHg (cioè la sua pressione interna è uguale a quella esterna). Come possiamo vedere nella figura a lato, il vaso sanguigno può essere riempito fino ad un certo volume senza alcun aumento della pressione (parte blu della linea), dopo di che ogni ulteriore aumento di volume determina un aumento della pressione interna al vaso (porzione rossa della linea).

Abbiamo due possibilità per aumentare lo “stressed volume” e quindi la pressione sistemica media: 1) riempire ancora di più il vaso sanguigno; 2) fare diventare il vaso più piccolo e rigido. L’approccio giusto non è sempre lo stesso: se pensiamo che il problema sia una riduzione di volume intravascolare (emorragia, disidratazione o dati derivanti dal monitoraggio emodinamico), la soluzione migliore è certamente la somministrazione di fluidi (e, nel frattempo, il “reclutamento” di sangue già disponibile con il sollevamento delle gambe o la posizione di Trendelemburg). Se viceversa si ritiene che il problema sia una riduzione del tono vascolare e quindi una vasodilatazione, la soluzione migliore è l’uso di un vasocostrittore (ad esempio la noradrenalina).

Che scelta abbiamo fatto nella nostra signora Rosa? Abbiamo preferito utilizzare i vasocostrittori, incrementando la dose di norepinefrina in infusione. Molti elementi hanno spinto a questo: la sedazione necessaria per l’intubazione determina un aumento della compliance dei vasi e quindi una riduzione della pressione sistemica media. Un vasocostrittore ripristina quindi lo stato dei vasi pre-sedazione. Inoltre nella sepsi possiamo mettere in conto che la vasodilatazione sia una concausa dell’ipotensione. Infine la maggior parte dei pazienti dopo un giorno di Terapia Intensiva non ha un deficit volemico: siamo infatti solitamente bravissimi a dare liquidi! A volte dimenticando che, se dati in eccesso, sono “velenosi”, associandosi ad un aumento della mortalità.

Mi fermo qui (ho superato le 1000 parole, mi complimento con chi è riuscito a leggere fino a questo punto) e cerco di riassumere le principali implicazioni pratiche di quanto abbiamo discusso.

In conclusione, in caso di ipotensione in corso di ventilazione meccanica:
1) non sottovalutiamola perchè potrebbe essere associata ad una bassa portata cardiaca (valutiamo quindi saturazione del sangue venoso centrale, lattati, diuresi, refilling capillare, ….)
2) la ventilazione deve essere orientata a ridurre la PEEP totale cioè la pressione di occlusione a fine espirazione (ovviamente se si ritiene che l’ipotensione si associ ad una bassa portata cardiaca): basso volume corrente, bassa frequenza respiratoria, bassa PEEP (ZEEP in caso di shock emorragico), basso I:E.
3) supporto di circolo: preferire un vasocostrittore nei pazienti sedati, con sepsi e senza segni di disidratazione o emorragia. Viceversa, prima ripristinare la volemia e quindi (o contemporaneamente) fare un buon uso della vasocostrizione.

Un saluto a tutti gli amici di ventilab. A presto.

Bibliografia.

- Brengelmann GL. A critical analysis of the view that right atrial pressure determines venous return. J Appl Physiol 2003; 94:849-59
- Henderson WR et al. Guyton – the role of mean circulatory filling pressure and right atrial pressure in controlling cardiac output. Critical Care 2010, 14:243
- Magder S. An approach to hemodynamic monitoring – Guyton at the bedside . Critical Care 2012, 16:236
- Reddi BAJ et al. Venous excess: a new approach to cardiovascular control and its teaching. J Appl Physiol 2005; 98: 356-64
- Sakr Y et al. High tidal volume and positive fluid balance are associated with worse outcome in acute lung injury. Chest 2005, 128:3098-108

P0.1 (pressione di occlusione delle vie aeree): cosa è, come utilizzarla.

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Molti amici di ventilab mi hanno chiesto di dedicare un po’ di spazio alla P0.1. Volentieri affronto quindi l’argomento, anche perchè la possibilità di misurare la P0.1 è sempre più frequente sui nostri magnifici ventilatori meccanici. E, come tutte le cose, la si deve conoscere bene per usarla in maniera appropriata.

La P0.1 è sempre stata un oggetto un po’ misterioso per chi non si dedica specificatamente alla fisiopatologia respiratoria. Ricordo a tal proposito un episodio che risale ad oltre 20 anni fa: ad un congresso un chairman poco esperto di fisiopatologia respiratoria doveva moderare una sessione in cui c’era una relazione sulla P0.1, che fu presentata in questo modo: “Ed ora abbiamo il piacere di sentire una interessantissima relazione del dott. xxxxxxx sulla PO1″ (il problema fu che invece di “zero” lesse “O” come la lettera dell’alfabeto!). Niente di male, solo la sfortuna di doversi occupare (soprattutto allora) di un argomento spesso riservato agli “iniziati”….

Cosa è la P0.1

La P0.1, che nella letteratura scientifica è chiamata anche pressione di occlusione delle vie aeree (airway occlusion pressure), è la misura della riduzione della pressione (P) delle vie aeree nel primo decimo di secondo (da qui il nome 0.1) di un’inspirazione con vie aeree occluse.

Chiariamo meglio il concetto con una rappresentazione grafica. Guardiamo la seconda curva (quella della pressione delle vie aeree Paw) nella figura a lato. La prima linea tratteggiata verticale indica il momento in cui inizia un’inspirazione triggerata dal paziente. Per misurare la P0.1 questa inspirazione deve iniziare contro una via aerea occlusa per almeno 0.1 secondi ed il paziente deve essere ignaro di questa occlusione. Essendo la via aerea occlusa, in questi 0.1 secondi il paziente non riceverà alcuna insufflazione dal ventilatore (non riuscirà quindi nemmeno ad attivare il trigger) e si avrà una riduzione della pressione nelle vie aeree. La differenza di pressione delle vie aeree tra valore di fine espirazione e quello rilevato dopo 0.1 secondi di occlusione è la P0.1.

Perchè il paziente non deve essere consapevole di questa occlusione? Perchè proprio 0.1 secondi? La P0.1 viene proposta come misura del drive respiratorio centrale, cioè del livello di attivazione del centro del respiro. Tanto maggiore è il drive respiratorio, tanto maggiore sarà la forza con cui i muscoli respiratori si contraggono e quindi la depressione che essi generano contro una via aerea occlusa. A noi interessa quindi la pressione sviluppata dai muscoli respiratori per effetto della sola attività involontaria del centro respiratorio. Quindi tutte le influenze corticali devono essere abolite e per ottenere questo risultato il soggetto deve essere inconsapevole. Quando però occludiamo le vie aeree, introduciamo una perturbazione rispetto alla normale attività respiratoria che potrebbe essere percepita dal soggetto e quindi modificarne l’output del centro respiratorio. Si ritiene però che nel breve lasso di tempo di 0.1 secondi l‘occlusione non sia percepita e quindi l’attività dei muscoli respiratori non possa essere influenzata. Nello studio di Whitelaw, Derenne e Milic-Emili che introdusse la P0.1 nella fisiologia applicata , si osservò che solo dopo 0.25 secondi si notavano segni suggestivi di modificazioni dell’attività del centro del respiro indotte dall’occlusione delle vie aeree.

Limiti della P0.1.

Ammetto di avere una certa diffidenza verso la P0.1. Prima di tutto perchè ritengo che non sia mai stato dimostrato in modo convincente che la P0.1 sia un buon indicatore quantitativo del drive respiratorio.

Nello storico studio di Whitelaw sono stati arruolati solo 10 giovani maschi sani di età compresa tra i 15 ed i 34 anni ed è stata solamente valutata la variazione della P0.1 con l’ipercapnia. Nemmeno studi successivi non hanno mai chiaramente validato la P0.1 come misura del drive respiratorio.

Inoltre nei pazienti con disturbi neuro-muscolari la P0.1 può non riflettere il drive respiratorio: anche se questo fosse elevato, la capacità di generare pressione da parte dei muscoli respiratori è ridotta a causa del danno nervo-muscolare. E siamo ormai sempre più consapevoli che questo è un problema frequente in Terapia Intensiva (ICU-acquired weakness, ventilatory induced diaphragmatic dysfunction). A questo va aggiunto che la P0.1 può essere alterada variazioni del volume polmonare di fine espirazione (generate dalla PEEP o dalla PEEPi), che possono alterare la relazione tra tensione muscolare e pressione sviluppata.

Infine l’utilizzo della P0.1 nella ricerca clinica è stato a volte improprio e comunque ha portato a risultati contrastanti: quindi pochissimi dati convincenti dalla letteratura scientifica.

Utilizzo pratico della P0.1.

Consapevoli di questi limiti, la P0.1 può essere comunque di aiuto al letto del paziente. Vediamo un possibile approccio pratico all’utilizzo della P0.1.

1) P0.1 < 1-2 cmH2O.
Analizzando il resto dei dati a nostra disposizione, dobbiamo capire quale di queste tre condizioni è vera:
a) l’assistenza ventilatoria è eccessivamente elevata: questo mette “a riposo” il centro del respiro e quindi la P0.1 è bassa. Implicazione pratica: riduciamo il livello di supporto; se quest’ultimo non fosse in realtà molto elevato, potrebbe essere una buona idea far fare al paziente un bel trial di respiro spontaneo (se tutte le altre condizioni per il weaning sono presenti);
b) il paziente è sedato: la sedazione deprime il centro del respiro, puoi usare la P0.1, insieme agli altri monitoraggi, per ottimizzare il livello di sedazione;
c) il paziente è affetto da debolezza muscolare: questo è da sospettare soprattutto se la riduzione del supporto inspiratorio determina un respiro rapido e superficiale associato a bassi valori di P0.1. In questo caso è utile misurare la MIP (maximum inspiratory pressure)  o la NIF (negative inspiratory force) con uno sforzo massimale del paziente a vie aeree chiuse.

2) P0.1 > 5-6 cmH2O.
In questo caso l’interpretazione è più semplice: il drive respiratorio è elevato, in altre parole il cervello del paziente “sente” fame d’aria e stimola il paziente a respirare intensamente. Quando abbiamo una P0.1 elevata, il paziente ha elevate è probabilità di fallire lo svezzamento dalla ventilazione meccanica; dovremo anzi incrementare il supporto ventilatorio (o fare un uso giudizioso deilla sedazione).

Per valori intermedi (quindi 3-4 cmH2O), la P0.1 offre una segnale facilmente interpretabile.

Possiamo quindi concludere che la P0.1 non è un numero magico (come del resto pochi ce ne sono in medicina), ma che può, nell’ottica di una valutazione multiparametrica della ventilazione, migliorare la nostra conoscenza del paziente ventilato e quindi il modo di utilizzare la ventilazione meccanica.

Un caro saluto a tutti.

Bibliografia.

- Alberti A et al. P0.1 is a useful parameter in setting the level of pressure support ventilation. Intensive Care Med 1995; 21:547-53
- Berger KI et al. Mechanism of relief of tachypnea during pressure support ventilation. Chest 1996; 109:1320-7
- Del Rosario N et al. Breathing pattern during acute respiratory failure and recovery. Eur Respir J 1997; 10:2560-5
- de Souza LC et al. Comparison of maximal inspiratory pressure, tracheal airway occlusion pressure, and its ratio in the prediction of weaning outcome: impact of the use of a digital vacuometer and the unidirectional valve.Respir Care 2012; 57:1285-90
- Fernandez R et al. P0.1/PIMax: An index for assessing respiratory capacity in acute respiratory failure. Intensive Care Med 1990; 16:175-9
- Fernandez R et al. Extubation failure: Diagnostic value of occlusion pressure (P0.1) and P0.1-derived parameters. Intensive Care Med 2004; 30:234-40
- Hilbert G et al. Airway occlusion pressure at 0.1 s (P0.1) after extubation: An early indicator of postextubation hypercapnic respiratory insufficiency. Intensive Care Med 1998; 24:1277-82
- Mancebo J et al. Airway occlusion pressure to titrate Positive End-expiratory Pressure in patients with dynamic hyperinflation. Anesthesiology 2000; 93: 81-90
- Milic-Emili J et al. Occlusion pressure: a simple measure of the respiratory center’s output. N Engl J Med 1975; 293:1029-30
- O Perrigault PF et al. Changes in occlusion pressure (P0.1) and breathing pattern during pressure support ventilation. Thorax 1999; 54:119-23
- Sassoon CSH et al. Airway occlusion pressure and breathing pattern as predictors of weaning outcome. Am Rev Respir Dis 1993; 148:860-6
- Whitelaw WA et al.Occlusion pressure as a measure of respiratory center output im conscious man. Respir Physiol 1975; 23:181-99

ARDS e posizione prona: ecco cosa c’è di nuovo.

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La pronazione (cioè mettere a pancia in giù) è da anni una procedura utilizzata nei pazienti con ARDS. Da tanti anni è noto che la pronazione migliora l’ossigenazione favorendo l’aumento della capacità funzionale residua e l’accoppiamento di ventilazione e perfusione (1). Negli ultimi anni si è capito che probabilmente la pronazione ha anche un effetto protettivo sul polmone, riducendo stress e strain (2-3).

Nonostante i vantaggi teorici, i trial clinici eseguiti per verificare l’impatto della pronazione sulla sopravvivenza non erano mai riusciti a dimostrare una riduzione della mortalità rispetto a quella supina (4-7). Ma adesso sembra che le cose stiano cambiando.

Ancora in attesa di pubblicazione, lunedì sera è stato anticipato online sul sito del New England Journal of Medicine lo studio PROSEVA che potrebbe cambiare le carte in tavola. Per il momento puoi vedere l’articolo cliccando qui. Per una strana coincidenza, pochi minuti prima che apparisse su internet, avevo parlato dei risultati di questo studio, che giravano nei congressi, in una risposta ad un commento

Proviamo ora a vedere insieme gli aspetti salienti dello studio PROSEVA.

Gli autori di questo studio hanno deciso di arruolare solamente pazienti con ARDS da meno di 36 ore con un PaO2/FIO2 < 150 mmHg con almeno 5 cmH2O di PEEP che mantenessero questa condizione per almeno 12-24 ore. I pazienti arruolati venivano randomizzati per essere ventilati in posizione supina (234 pazienti)o in posizione prona (240 pazienti). 

Nello studio PROSEVA la posizione supina era mantenuta per almeno 16 ore consecutive: una posizione supina completa, senza supporti per l’addome ma solo con “imbottiture” adesive per fronte, ginocchia, torace e creste iliache. Il capo era ruotato ogni due ore a destra ed a sinistra. Quindi i pazienti erano riposizionati in posizione supina; venivano nuovamente pronati se avevano un PaO2/FIO2 < 150 mmHg dopo circa6 ore in posizione supina. Il ciclo delle pronazioni cessava quando il PaO2/FIO2 diventava > 150 mmHg.

I pazienti che venivano pronati, trascorrevano effettivamenete quasi il 75% del tempo in posizione prona (ovviamente durante il periodo in cui avevano i criteri per la pronazione). La mortalità a 28 giorni (l’outcome principale dello studio) è stata nettamente minore nel gruppo “prono” rispetto a quello “supino” (16% vs 33%, p<0.001). Un risultato eclatante, di cui dovremo certamente tenere conto nella ventilazione dei nostri pazienti con ARDS. Ma che merita qualche commento.

Dobbiamo innanzitutto ricordare che, tra i trial clinici sulla pronazione, lo studio PRESEVA è l’unico a dimostrarne chiaramente l’efficacia. Questo può essere spiegato da alcune caratteristiche dello studio PROSEVA: sono stati arruolati solo i pazienti più gravi, che sembrano essere i soggetti ideali per la pronazione (8); l’arruolamento è stato riservato ai pazienti che confermavano di avere una ARDS grave dopo 12-24 ore di osservazione, eliminando così sia i pazienti che muoiono subito, sia quelli che migliorano rapidamente (con o senza pronazione); il periodo di pronazione era prolungato, nettamente prevalente rispetto al tempo supino; allo studio hanno partecipato solo ed esclusivamente centri che utilizzano routinariamente la pronazione da almeno 5 anni.

Non possiamo però trascurare che i risultati dello studio PROSEVA potrebbero essere stati favoriti anche dalla selezione dei pazienti. Infatti nel periodo dello studio i centri partecipanti hanno ricoverato 3449 pazienti con ARDS ma solo 1434 (41.5%)  sono stati presi in considerazione (cioè “screenati) per la partecipazione allo studio. E purtroppo non possiamo conoscere le caratteristiche dei 2015 pazienti con ARDS non considerati per l’inclusione nello studio (i ricercatori non le hanno raccolte…). Sono forse stati involontariamente “scelti” pazienti con particolari caratteristiche? Un dato strano c’è: nello studio PROSEVA circa il 60% dei pazienti avevano una ARDS secondaria a polmonite, quasi il doppio dei rispetto allo studio della ARDSNet che confrontò la ventilazione a bassi ed alti volumi correnti (9).

Dobbiamo poi notare che nei pazienti pronati la pressione di plateau è rimasta, per tutta la prima settimana di studio, più bassa di quella dei pazienti non pronati. Certamente questo può essere un risultato della pronazione. Ma la riduzione della mortalità è legata alla riduzione della pressione di plateau o alla pronazione? E se nel gruppo “supino” si fossero ridotte le pressioni di plateau riducendo il volume corrente (il margine c’era, in fondo il pH medio era circa 7.40)?

Infine, dobbiamo considerare questi dati sono stati ottenuti con un protocollo che non considerava l’individualizzazione del trattamento dei pazienti sui dati di meccanica respiratoria: la PEEP è stata scelta con una tabella PEEP/FIO2 che ha portato pazienti con ARDS grave a ricevere mediamente PEEP tra gli 8 ed i 9 cmH2O e la pressione di plateau limitata a 30 cmH2O. Nessuno spazio a punto di flesso, driving pressure, elastanza volume-dipendente, pressione transpolmonare, stress index. Un modo facile, ma probabilmente non intelligente, di scegliere la PEEP e volume corrente per limitare stress e atelettrauma… Ripensiamo alla signora Pina (vedi post del 21 febbraio 2013)…

Ci sarebbe molte altre considerazioni da fare sullo studio PROSEVA, se ci sarà l’occasione le valuteremo nei commenti.

In conclusione, con le conscenze finora a nostra disposizione, quando e come dovremo utilizzare la posizione prona nella pratica clinica? Ecco un possibile utilizzo razionale della pronazione:
- dovrebbe essere utilizzata precocemente nei pazienti con ARDS grave (PaO2/FIO2 < 150 mmHg);
- dovrebbe essere prolungata (tra le 15 e le 18 ore consecutive con intervalli di 4-6 ore in posizione supina);
- dovrebbe essere proseguita fintantochè la ARDS rimane grave, cioè fino a quando il PaO2/FIO2, nei periodi di posizione supina, non arriva a superare i  150 mmHg;
- bisogna ricordare che esistono controindicazioni: ad esempio tra i criteri di esclusione del PROSEVA c’erano ipertensione intracranica, politrauma, ipotensione.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

PS: avevo promesso un post su MIP/NIF: sarà il prossimo, a meno di altre novità…

Bibliografia.

1) Lamm WJ et al. Mechanism by which the prone position improves oxygenation in acute lung injury. Am J Respir Crit Care Med 1994;150:184-93
2) Mentzelopoulos SD et al. Prone position reduces lung stress and strain in severe acute respiratory distress syndrome. Eur Respir J 2005; 25:534-44
3) Galiatsou E et al. Prone position augments recruitment and prevents alveolar overinflation in acute lung injury. Am J Respir Crit Care Med 2006;174:187-97
4) Gattinoni L et al. Effect of prone positioning on the survival of patients with acute respiratory failure. N Engl J Med 2001;345:568-73
5) Guerin C et al. Effects of systematic prone positioning in hypoxemic acute respiratory failure: a randomized controlled trial. JAMA 2004;292:2379-87
6) Taccone P et al. Prone positioning in patients with moderate and severe acute respiratory distress syndrome: a randomized controlled trial. JAMA 2009;302:1977-84
7) Mancebo J, Fernández R, Blanch L, et al. A multicenter trial of prolonged prone ventilation in severe acute respiratory distress syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2006;173:1233-9
8) Sud S et al. Prone ventilation reduces mortality in patients with acute respiratory failure and severe hypoxemia: systematic review and meta-analysis. Intensive Care Med 2010; 36:585-99
9) ARDS Network. Ventilation with lower tidal volumes as compared with traditional for acute lung injury and the acute respiratory distress sindrome. N Engl J Med 2000, 342:1301-8

Interazione ventilatore-paziente in ventilazione non invasiva

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Durante la ventilazione meccanica la sincronia tra l’eventuale attività spontanea del paziente e l’azione prodotta dal ventilatore rappresenta un fattore importante nel determinare il successo del trattamento. Nell’ambito della ventilazione non invasiva (NIV) ciò è particolarmente vero, dal momento che la sincronia può condizionare, oltre che l’efficacia, anche la tollerabilità della tecnica da parte del paziente[1].

Per di più nel trattamento dell’insufficienza respiratoria acuta mediante NIV dovremmo essere in grado di ottimizzare rapidamente la sincronia e sfruttare al massimo le potenzialità della metodica, perché sappiamo che in caso di inefficacia il ritardo nel passaggio alla ventilazione invasiva peggiora la mortalità (vedi post del 15/07/2011 e del 06/10/2012).

Rispetto alla ventilazione invasiva, l’interazione ventilatore-paziente in NIV è complicata da:

  1. tipo di interfaccia paziente;

  2. presenza di perdite aeree (intenzionali e non intenzionali) che si verificano a livello dell’interfaccia paziente.

a) A proposito del tipo di interfaccia, limitando il discorso alle soluzioni più utilizzate nei reparti intensivi e sub-intensivi (maschere e caschi), va detto che in generale l’utilizzo del casco in NIV è gravato rispetto alla maschera oro-nasale da un maggior tasso di asincronie, perchè la parete compliante e l’elevato volume interno di gas comprimibile attutiscono le variazioni di pressione e di flusso all’interno del circuito. Ne risultano prevalentemente ritardi nel triggering e fenomeni di auto-triggering dell’atto assistito dalla macchina[2].

b) Se il casco o la maschera non aderiscono bene alla superficie del collo o del viso, le perdite aeree non intenzionali possono determinare marcate asincronie. In particolare, le perdite aeree in fase espiratoria possono essere interpretate dal ventilatore come sforzi inspiratori da parte del paziente e causare auto-triggering dell’atto assistito; d’altra parte l’algoritmo di compensazione delle perdite può far sì che la macchina non riesca a differenziare gli sforzi inspiratori del paziente dalle perdite aeree e si producano quindi sforzi inspiratori inefficaci. In fase inspiratoria invece la perdita aerea può simulare una inspirazione protratta nel tempo e causare un ritardo nel ciclaggio dall’inspirazione all’espirazione[3].

La quantità di asincronia indotta dipende in tutti questi casi sia dall’entità delle perdite, sia dalla capacità del ventilatore di compensarle; di converso un elevato livello di supporto pressorio incrementa l’entità delle perdite[3].

Ricordiamoci poi che l’inadeguatezza delle impostazioni dei parametri ventilatori da parte di noi operatori può sia essere l’unico motivo dell’asincronia riscontrata (analogamente a quanto osservabile in ventilazione invasiva), sia sommarsi alle problematiche specifiche della NIV. In casi limite il paziente può ritrovarsi a respirare in totale controfase rispetto all’assistenza ventilatoria!

Le principali asincronie osservate durante NIV applicata mediante maschera facciale[4] sono:

  • sforzi inspiratori inefficaci (figura 1): come visto in precedenza sono associati all’entità delle perdite e, analogamente a quanto accade in ventilazione invasiva, sono stati riportati più frequentemente in pazienti affetti da patologia polmonare ostruttiva, probabilmente in relazione alla presenza di auto-PEEP (vedi post del 08/05/2012);

  • auto-triggering: associati anch’essi all’entità delle perdite ma certamente correlati anche alla sensibilità e al tipo di trigger oltre che alle caratteristiche specifiche del ventilatore in uso (vedi post del 27/01/2013);

  • doppio triggering (figura 2): fenomeno potenzialmente legato a un insufficiente livello di pressione di supporto associata o meno a una insufficiente durata del tempo inspiratorio, in presenza di uno sforzo inspiratorio vigoroso o sostenuto;

  • ciclaggi espiratori ritardati (figura 1 e 3): sono correlati, come detto, all’entità delle perdite aeree e forse favoriti dalla presenza di patologia polmonare ostruttiva.

Lo spazio disponibile per questo post è quasi esaurito. Per una descrizione più dettagliata e per il trattamento specifico di ciascun tipo di asincronia rimando gli amici di ventilab ai contributi precedentemente pubblicati e ai prossimi che certamente compariranno sul nostro sito.

Vengo dunque alle conclusioni.

1) Anche in corso di NIV poniamo grande attenzione all’interazione ventilatore-paziente:

  • guardiamo e tocchiamo il paziente: rivalutiamo di frequente i movimenti del torace e dell’addome, accertiamoci che si espandano entrambi in concomitanza con l’insufflazione meccanica, controlliamo che i segni di distress respiratorio si riducano rapidamente entro limiti accettabili (se indispensabile, una minima e temporanea sedazione può a mio giudizio essere considerata);
  • guardiamo e tocchiamo il ventilatore: controlliamo che non compaiano sul monitoraggio grafico i segni dell’asincronia descritti in precedenza né segni di elevate perdite aeree, ottimizziamo le impostazioni del ventilatore in modo da ottenere una adeguata riduzione del lavoro respiratorio del paziente e un adeguato ripristino dei volumi polmonari;
  • guardiamo e tocchiamo l’interfaccia: scegliamo il giusto tipo di presidio (può essere una buona regola di partenza riservare l’uso del casco alla CPAP e preferire la maschera per fare NIV) e verifichiamone frequentemente il corretto posizionamento al fine di minimizzare le perdite aeree, pur cercando di limitare i possibili danni da decubito.

2) Consideriamo precocemente il passaggio alla ventilazione invasiva tutte le volte che non riusciamo a ottenere una sincronia soddisfacente e il miglioramento delle condizioni del paziente in termini di riduzione della fatica, di adeguatezza del pattern di ventilazione (frequenza respiratoria e volume corrente), di efficienza degli scambi gassosi.

Grazie per l’attenzione e a presto.

P.S. Il post su MIP e NIF promesso da Beppe è in corso di preparazione, per leggerlo dovremo  pazientare ancora un paio di settimane.

Riferimenti bibliografici

  1. Carlucci A, Richard J, Wysocki M, Lepage E, Brochard L. Noninvasive versus conventional mechanical ventilation. An epidemiologic survey. Am J Respir Crit Care Med 2001; 163:874–880

  2. Pisani L, Carlucci A, Nava S. Interfaces for noninvasive mechanical ventilation: technical aspects and efficiency. Minerva Anestesiol 2012; 78:1154-61

  3. Schettino P, Tucci R, Sousa R, Barbas V, Amato P, Carvalho R. Mask mechanics and leak dynamics during noninvasive pressure support ventilation: a bench study. Intensive Care Med 2001; 27:1887-91

  4. Vignaux L, Vargas F, Roeseler J, Tassaux D, Thille AW, Kossowsky MP, Brochard L, Jolliet P. Patient-ventilator asynchrony during non-invasive ventilation for acute respiratory failure: a multicenter study. Intensive Care Med 2009; 35:840-6

MIP/NIF nello svezzamento (weaning) dalla ventilazione meccanica: la forza ed il carico.

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Come promesso ad alcuni amici di ventilab, ecco il post sulla Maximun Inspiratory Pressure (MIP) (o Negative Inspiratory Force, NIF). Cosa sono, a cosa servono? Per rispondere a queste domande, commentiamo insieme il caso di Piero.

Piero è un uomo di 78 ricoverato per una riacutizzazione postoperatoria di BPCO. E’ trachetomizzato ed ha difficoltà di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Quando è deconnesso dal ventilatore, nel volgere di poche ore manifesta dispnea e respiro rapido e superficiale. Un quadro clinico che siamo abituati a vedere relativamente spesso nei nostri pazienti. Perchè Piero non riesce a conquistare il weaning dalla ventilazione meccanica?

Sappiamo che la dipendenza dalla ventilazione meccanica può essere ricondotta principalmente a due cause: un elevato carico o una ridotta forza dei muscoli respiratori.

Se riusciremo a capire quale, tra questi due, sia il problema principale per Piero, potremo indirizzare i nostri sforzi verso la vera cura del problema.

Per esaminare la forza dei muscoli respiratori possiamo misurare la MIP. La MIP è la misurazione della variazione di pressione generata dai muscoli respiratori durante un’inspirazione massimale contro una via aerea chiusa. Nei pazienti intubati o tracheotomizzati (come Piero) si deve occludere la via aerea a fine espirazione e far eseguire al paziente l’inspirazione più profonda possibile che è in grado di fare. La variazione della pressione nelle vie aeree è la nostra MIP. Alcuni ventilatori meccanici hanno ormai l’opzione per farlo automaticamente, altrimenti è possibile eseguire un’occlusione delle vie aeree un attimo prima dell’inizio dell’inspirazione massimale, congelare la traccia di pressione delle vie aeree durante la manovra e successivamente analizzarla. Il paziente deve essere istruito su ciò che deve fare e mentre esegue la manovra deve essere guidato ed incentivato a farla bene. E’ raccomandabile eseguire 3-5 manovre ed utilizzare la più grande variazione di pressione come valore di MIP. Nei pazienti non collaboranti è stato suggerito di occludere le vie aeree (con una valvola unidirezionale) per 20-25 secondi consecutivi e rilevare la massima variazione di pressione nelle vie aeree.

Noi abbiamo misurato la MIP a Piero, come facciamo spesso nei pazienti con weaning dalla ventilazione meccanica particolarmente impegnativo. Gli abbiamo spiegato la manovra e gliela abbiamo fatta eseguire tre volte. Abbiamo messo Piero in CPAP a 0 cmH2O (cioè l’abbiamo lasciato collegato al ventilatore senza alcuna pressione positiva) ed abbiamo eseguito l’occlusione delle vie aeree a fine espirazione. Contemporaneamente abbiamo registrato la pressione delle vie aeree. Ecco il risultato:

Piero è stato capace di ridurre la propria pressione nelle vie aeree al massimo di 30 cmH2O durante l’occlusione delle vie aeree. Che significato ha una MIP di 30 cmH2O? Piero appare essere un paziente relativamente debole, ma questa non sembra essere l’unica causa del fallimento del weaning. Infatti  la MIP “normale” per Piero dovrebbe essere nettamente superiore (tra 50 e 95 cmH2O, vedi nota), ma la debolezza muscolare diventa di per sè causa di fallimento dello svezzamento dalla ventilazione meccanica se la MIP è inferiore a 20 cmH2O.

La MIP quindi ci ha dato un’informazione utile ma, in questo caso, insufficiente per inquadrare il problema. Adesso dobbiamo capire quanto è il carico dei suoi muscoli respiratori, in altre parole quanto “costa” fare un respiro. Quindi abbiamo misurato la pressione esofagea ed ecco la risposta:

Durante un normale ciclo respiratorio la pressione esofagea si riduce mediamente di circa 16 cmH2O per ogni inspirazione. Nella figura qui sopra vediamo riprodotta la traccia durante tre inspirazioni consecutive: ogni riduzione della pressione corrisponde all’entità della pressione generata dai muscoli respiratori durante la normale respirazione.

Adesso conosciamo i due fattori in gioco: carico e forza dei muscoli respiratori di Piero. Il carico è di circa 16 cmH2Oe la forza di 30 cmH2O. In ogni inspirazione Piero deve utilizzare più della metà della forza massima che è capace di sviluppare: uno sforzo insostenibile. Si ritiene infatti che uno la respirazione spontanea non possa essere mantenuta a lungo quando il rapporto tra carico (=variazione di pressione esofagea durante la normale respirazione) e forza (=MIP) è superiore a 0.2, cioè quando si utilizza per ogni respiro più del 20% della propria forza massima.

Possiamo quindi affermare che Piero, pur non avendo una debolezza estrema (la MIP è > 20 cmH2O ), deve sostenere un lavoro troppo elevato per le sue forze. Abbiamo misurato la PEEP intrinseca di Piero ed abbiamo visto che è di 8 cmH2: in ogni respiro, metà dello sforzo è speso per annullare la PEEP intrinseca.

Ora abbiamo tutti gli elementi per orientare consapevolmente i nostri sforzi per  svezzare Piero dalla ventilazione meccanica. In primis cercare di ridurre la PEEP intrinseca che si genera durante la respirazione spontanea (in questo caso non ci interessa combattere la PEEPi durante ventilazione meccanica): 1) massimizzare la broncodilatazione; 2) ridurre frequenza respiratoria e ventilazione minuto spontanea: ridurre la produzione di CO2 (corretto apporto nutrizionale e controllo della ipertermia), eventuale saltuario utilizzo di oppioidi durante episodi di tachipnea che non si risolvono rapidamente; 3) ridurre la flow limitation: mantenimento della posizione seduta.

Sarà poi anche importante comunque aumentare la forza dei muscoli respiratori di Piero. Per fare questo, a mio modo di vedere, il fattore più importante è il corretta modulazione della assistenza ventilatoria, con l’obiettivo di evitare sia l’affaticamento costante che il ridotto utilizzo dei muscoli respiratori (eccessiva assistenza e, peggio, autociclaggio). Quindi un corretto apporto nutrizionale (calorie, proteine, calcio, fosforo). E probabilmente anche esercizi quotidiani di respirazione contro un carico soglia. Ed il mantenimento della posizione seduta: anche il diaframma ha bisogno di punti di appoggio.

Non abbiamo certamente già risolto i problemi del nostro Piero, ma sicuramente sappiamo molto di più di della semplice constatazione del fallimento del weaning ed abbiamo creato una prospettiva di cura personalizzata.

Per concludere:

1) la MIP/NIF può esserci utile nella pratica clinica nei casi di svezzamento difficile;

2) se rileviamo un valore di MIP inferiore  a 20 cmH2O, il problema principale è la debolezza dei muscoli respiratori: bisogna agire principalmente su questo (per quanto possibile);

3) se la MIP è, come spesso accade, tra 20 e 50 cmH2O, diventa utile valutare il carico, cioè la variazione di pressione esofagea durante la normale ventilazione. Un rapporto (variazione normale pressione esofagea)/MIP superiore a 0.2 significa carico troppo elevato per le risorse del paziente.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab (sperando che torni il bel tempo…)

Nota. Il range di MIP normale può essere così calcolato: nei maschi 126 – 1.028*età + 0.343*peso in kg+ 22.4; nelle femmine 171 – 0.694*età+ 0.861*peso in kg- 0.743*altezza in cm + 18.5

Bibliografia

- ATS/ERS Statement on Respiratory Muscle Testing. Am J Respir Crit Care Med 2002; 166: 518-624
- Cader SA et al. Inspiratory muscle training improves maximal inspiratory pressure and may assist weaning in older intubated patients: a randomised trial. J Physiother 2010; 56:171-7
- Harik-Khan RI et al. Determinants of maximal inspiratory pressure: the Baltimore Longitudinal Study of Aging. Am J Respir Crit Care Med 1998; 158:1459-64
- Martin AD et al. Inspiratory muscle strength training improves weaning outcome in failure to wean patients: a randomized trial. Crit Care 2011; 15:R84
- Moxham J et al. Assessment of respiratory muscle strength in the Intensive Care Unit. Eur Respir J 1994; 7: 2057-61
- Truwit JD at al. Validation of a technique to assess maximal inspiratory pressure in poorly cooperative patients. Chest 1992; 102;1216-9

Sedazione e asincronia

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La sedazione in terapia intensiva è un argomento molto dibattuto, specie negli ultimi 15 anni, da quando si sono andate accumulando in letteratura evidenze riguardanti gli effetti sfavorevoli della sedazione profonda in termini di morbilità (durata della ventilazione meccanica, durata della degenza in terapia intensiva e in ospedale, incidenza di svariate complicanze della terapia intensiva)1 e potenzialmente anche di mortalità dei pazienti,2 con conseguente aumento dei costi delle cure (vedi post del 28 febbraio 2010).
Anche l’asincronia tra paziente e ventilatore è stata associata a maggior durata della ventilazione meccanica e a minore probabilità di successo del weaning.3,4

Pur al di là dei casi in cui la sedazione e la ventilazione controllata siano assolutamente necessarie per motivi clinici, i medici dichiarano di somministrare comunemente sedativi allo scopo di facilitare l’adattamento del paziente alla ventilazione meccanica e migliorare la sincronia tra paziente e ventilatore.5,6

Sedare i pazienti per migliorare l’interazione è una pratica sempre opportuna?

C’è da dubitarne, e infatti un paio di recenti studi osservazionali hanno fornito alcuni interessanti risultati.

Gli Autori del primo studio6 hanno esaminato pazienti ventilati in SIMV+PS, PSV e PCV. Il tasso di asincronie registrato è stato elevato (11% circa del totale degli atti respiratori) e le asincronie di gran lunga più comuni (88% circa) sono risultate gli sforzi inspiratori inefficaci (figura 1). Altre asincronie rilevate con minore frequenza sono state i ciclaggi anticipati, i doppi triggering e i ciclaggi ritardati. Definizioni e descrizioni di queste asincronie sono disponibili in letteratura3 e più volte sono apparsi su www.ventilab.org post e commenti a riguardo.

Lo studio ha rivelato che il tasso di sforzi inspiratori inefficaci (cui l’analisi è stata limitata per ragioni statistiche) era pari a zero nei pazienti svegli e calmi (RASS=zero) ma aumentava linearmente con l’aumento della profondità dello stato di sedazione, fino ad attestarsi intorno al 15% di tutti gli atti respiratori nei pazienti non risvegliabili (RASS=-5); inoltre era superiore nei pazienti comatosi rispetto ai pazienti svegli o in quelli che presentavano delirium. C’è da notare che la quantità di sedativi somministrati nelle 24 ore precedenti l’osservazione non correlava con il tasso di asincronia, sebbene non risulti che il dosaggio dei sedativi sia stato modulato sulla base del livello di sedazione ottenuto.
Lo studio presenta numerosi altri limiti, tuttavia la correlazione tra livello di sedazione e asincronia merita di essere ulteriormente indagata. Gli Autori ipotizzano che l’aumento degli sforzi inspiratori inefficaci possa essere imputabile al minore sforzo muscolare e quindi al minore flusso inspiratorio generato dai pazienti maggiormente sedati.

Il secondo studio7 è stato condotto su un campione di pazienti ventilati in ACV (volume assistito-controllato) con un volume corrente di 6,7 ml/kg di peso ideale. Il tasso di asincronie riscontrato è stato elevatissimo: il 44 (27-87) % degli atti respiratori erano costituiti da doppi triggering (detti anche in inglese breath-stacking; figura 2). Bisogna rimarcare che il volume corrente insufflato in caso di doppio triggering risulta di regola superiore (fino al doppio!) rispetto al volume corrente impostato: si tratta pertanto di un fenomeno potenzialmente pericoloso, specialmente in particolari categorie di pazienti (es. ARDS, ma non solo). Gli autori hanno voluto verificare quali trattamenti venivano messi in atto dallo staff curante e qual’era l’efficacia di quei trattamenti.

comportamenti osservati sono stati tre: nessun intervento, aumento della sedazione o modifica delle impostazioni del ventilatore (passaggio a PSV o prolungamento del tempo inspiratorio in ACV). Entrambi gli interventi si sono rivelati efficaci nel ridurre il tasso di asincronia rispetto a nessun intervento (figura 3) ma la modifica delle impostazioni del ventilatore è stata nettamente più efficace rispetto all’aumento della sedazione (figura 4).

 

Le conclusioni che mi sento di proporre agli amici di ventilab sono le seguenti:

- sebbene non esistano a oggi prove definitive che le asincronie tra paziente e ventilatore determinino di per sé effetti negativi sugli esiti clinici rilevanti, è bene acquisire la capacità di riconoscerle attraverso quel prezioso strumento che è il monitoraggio grafico del ventilatore;

- dal momento che protocolli e strategie finalizzate alla “ottimizzazione” (leggi alla riduzione) dell’uso dei sedativi si sono rivelati vantaggiosi per i pazienti, dovremmo tendere a risolvere i problemi di asincronia modificando opportunamente le impostazioni del ventilatore e riservare l’uso dei sedativi solo ai casi di assoluta necessità.

Un caro saluto a tutti, a chi è in vacanza e a chi è ancora al lavoro. A presto.

 

Bibliografia

1. Schweickert WD et al. Daily interruption of sedative infusions and complications of critical illness in mechanically ventilated patients. Crit Care Med 2004; 32: 1272–76

2. McGrane S. et al. Sedation in the Intensive Care Unit. Minerva Anestesiol 2012; 78:369-80

3. Thille AW et al. Patient-ventilator asynchrony during mechanical ventilation: Prevalence and risk factors. Intensive Care Med 2006; 32:1515–1522.

4. Chao DC et al. Patient-ventilator trigger asynchrony in prolonged mechanical ventilation. Chest 1997; 112:1592–1599

5. Rhoney DH et al. National survey of the use of sedating drugs, neuromuscular blocking agents, and reversal agents in the intensive care unit. J Intensive Care Med 2003; 18:139–145

6. de Wit M et al. Observational study of patient-ventilator asynchrony and relationship to sedation level. J Crit Care. 2009; 24: 74–80

7. Chanques G et al. Impact of ventilator adjustment and sedation–analgesia practices on severe asynchrony in patients ventilated in assist-control mode. Crit Care Med 2013 Jun 18; 41 [Epub ahead of print] DOI: 10.1097/CCM.0b013e31828c2d7a


UN INTERESSANTE CASO DI INTERAZIONE TRA VENTILAZIONE MECCANICA ED EMODINAMICA Parte 1

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Quando la necessità di ventilazione meccanica si prolunga oltre i sette – dieci giorni è consuetudine sottoporre i pazienti a tracheotomia percutanea. Questo consente di ridurre le complicanze a distanza legate al permanere tra le corde del tubo tracheale, facilita il raggiungimento del respiro spontaneo da parte del paziente, consente una migliore igiene orale e un confort in genere superiore per il paziente.

Nella nostra terapia intensiva utilizziamo, al letto del paziente, due tecniche tracheotomiche percutanee: Ciaglia monodilatatore e Fantoni. Utilizziamo la Ciaglia in caso di disfagia e/o danno neurologico, e posizioniamo una cannula con aspirazione sottoglottica per poter rimuovere le secrezioni che si raccolgono tra il piano cordale e la cuffia; questo provvedimento è riconosciuto efficace, quando applicato insieme ad altri, nella prevenzione delle polmoniti associate alla ventilazione. Nel caso di questa paziente si è deciso di adottare la tecnica di Fantoni.

La tecnica

La tracheotomia con tecnica di Fantoni viene definita translaringea per sottolineare una sua particolarità.

Il paziente viene intubato con un tubo rigido (tracheoscopio) e, sotto controllo fibroscopico, si procede a puntura della trachea. Attraverso l’ago si introduce un filo guida che risale dentro il tubo e viene recuperato dall’alto. A questo punto, per consentire il passaggio translaringeo della cannula, è necessario sostituire il tubo rigido con uno di calibro ridotto (4 ID) la cui cuffia deve posizionarsi nettamente più distale rispetto al punto prescelto per l’inserimento della cannula. Si fissa la cannula al filo guida, si arrotola intorno ad un manubrio il filo guida che fuoriesce dal collo, si esercita una trazione sul filo impugnando il manubrio e con una contropressione sulla trachea, fino a far fuoriuscire la cannula dal collo. Quindi si posiziona correttamente la cannula aiutandosi con un mandrino rigido. Si controlla il corretto posizionamento con il fibroscopio e si rimuove, a questo punto, il tubo di piccolo diametro prima di connettere il ventilatore alla cannula. Questa è l’unica tecnica di tracheotomia percutanea in cui la cannula viene posizionata per via translaringea ed in cui sia necessario sostituire il tubo utilizzato all’inizio della procedura per consentire alla cannula di passare dalla bocca alla trachea.

In entrambe le tecniche tracheotomiche l’impostazione del ventilatore prevede ventilazione in volume controllato con FiO2 = 1, e livelli molto alti degli allarmi di “Pressione di picco” del ventilatore per poter erogare il volume corrente impostato. Infatti a causa della presenza del fibroscopio che riduce il lume del tubo o a causa del piccolo diametro del tubo inserito nella seconda fase della metodica di Fantoni, si raggiungono elevati valori di pressioni picco come conseguenza dell’aumento delle resistenze al flusso inspiratorio.

 

Il caso

TA, 75 anni, ricoverata per emorragia del tronco encefalico; per il persistere di grave danno neurologico e la necessità di assicurare autonomia del respiro e protezione delle vie aeree, viene sottoposta a procedura di tracheotomia percutanea. Viene posta indicazione a tecnica di Fantoni.

Dopo l’inizio dell’anestesia generale endovenosa la paziente viene posizionata per la tracheotomia e intubata con il tubo rigido. Le impostazioni del ventilatore sono 500 ml di volume corrente per 15 atti/minuto con un rapporto I:E di 1:2, PEEP di 5 cmH2O.

Nella foto (ventilazione durante fibroscopia) notate nei parametri d’impostazione (quelli in basso) la FiO2 = 1 e il limite della pressione di picco a 100 cmH2O, nella parte destra del monitor le pressioni di picco alte con normali pressioni di plateau.


Una volta recuperato il filo guida, il tracheoscopio rigido viene rimosso e posizionato il tubo di piccolo diametro mantenendo le precedenti impostazioni della ventilazione. Nel giro di pochi minuti compare bradicardia progressiva e ipotensione con desaturazione periferica. Dopo i primi attimi d’interrogativi è stato preso un semplice provvedimento … (continua)

Ipercapnia e ARDS: quando accettarla, quando temerla.

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Dopo l’assenza di luglio su ventilab, eccomi di nuovo qui per parlare di Marco, un quarantenne con ARDS moderata (PaO2/FIO2 tra 100 e 200) [1] dovuta ad una polmonite comunitaria, senza insufficienza cardiocircolatoria nè altre insufficienze d’organo. Marco è in ventilazione meccanica controllata con 450 ml di volume corrente, 28/min di frequenza respiratoria e 10 cmH2O di PEEP. E’ alto 175 cm, di conseguenza il suo peso ideale è 71 kg (puoi trovare le formule per calcolare il peso ideale nel post del 18/12/2011): il volume corrente risulta quindi essere circa 6 ml/kg di peso ideale. La PEEP è stata impostata a 10 cmH2O perchè questo valore, dopo una manovra di reclutamento, garantisce la ventilazione con la minor driving pressure (vedi post del 10/04/2011). Con questa impostazione abbiamo una pressione di plateau di 27 cmH2O (durante la scelta della PEEP è stato visto che a livelli di insufflazione più alti si iniziano ad apprezzare i segni di uno stress index > 1).

Problema: con questa impostazione, ragionevole dal punto di vista della ventilazione protettiva, la PaCO2 è 70 mmHg ed il pH 7.21. Che fare?

La prima cosa da fare è chiedersi se questo problema è davvero un problema. A mio parere l’ipercapnia è spesso vissuta come un problema per abitudine e tradizione. Molte volte ho visto darsi da fare per aumentare le vanetilazione quando la PaCO2 è 50 mmHg, ma accettare tranquillamente PaCO2 di 30 mmHg. Perchè? In fondo in entrambi i casi la deviazione dal valore normale è di 10 mmHg. Peraltro, sappiamo bene che è molto più innocuo un aumento della PaCO2 che una sua riduzione della stessa entità: prova a pensare alle possibili conseguenze di un aumento di 20 mmHg di PaCO2 (cioè PaCO2 = 60 mmHg) ed a quelli di una riduzione di 20 mmHg (cioè PaCO2 = 20 mmHg): penso non ci siano dubbi su quale delle due condizioni sia accettabile e quale no.

L’enfasi sulla PaCO2 come guida della ventilazione dipende anche dal fatto che è un numero facile. Vuoi mettere quando è facile regolare la ventilazione sul numerino dell’emogasanalisi rispetto ad una impostazione della ventilazione su pressione di plateau, driving pressure, pressione transpolmonare,ecc… Purtroppo però non sempre la strada più semplice porta nel posto migliore..

Torniamo al caso di Marco. Che problemi possono dargli la PaCO2 di 70 mmHg ed il pH di 7.21? Esaminiamo brevemente gli effetti fisiologici dell’ipercapnia acuta che possono avere un impatto su Mario:

- aumento della portata cardiaca. Esistono numerose evidenze che documentano che l’ipercapnia aumenta lo portata cardiaca [2,3]. Questo può avere effetti sfavorevoli? Penso proprio di no. Il nostro gruppo ha evidenziato che la ventilazione con 6 ml/kg di volume corrente, rispetto ai 12 ml/kg, aumenta portata cardiaca e trasporto di ossigeno nella ARDS e che questo effetto è principalmente dovuto all’aumento della PaCO2 e non tanto alla riduzione di volume corrente e pressioni intratoraciche [4]. Per concludere, per questo aspetto Marco può stare tranquillo con i suoi 70 mmHg di PaCO2.

- vasocostrizione polmonare. A livello della circolazione polmonare l’ipercapnia favorisce la vasocostrizione ipossica: quindi può migliorare l’accoppiamento ventilazione-perfusione al prezzo dell’aumento delle resistenze vascolari polmonari [2-3]. Le conseguenze possono essere una miglior ossigenazione ed un maggior postcarico del ventricolo destro. Quest’ultimo aspetto può diventare molto importante nei pazienti con scompenso del ventricolo destro (che a volte è presente nei pazienti con ARDS) e contribuire a peggiorarne l’insufficienza cardiocircolatoria [5]. Marco ha un buon compenso cardiocircolatorio e non abbiamo quindi motivo di sospettare uno scompenso destro. Anche da questo punto di vista per lui l’ipercapnia non è un problema.

- risposta immunitaria: l’ipercapnia sembra protettiva nella risposta sistemica alla sepsi e nelle prime fasi della sepsi secondaria a polmonite. Potrebbe invece peggiorare il danno polmonare nelle polmoniti di lunga durata [6]. Marco è nella fase iniziale della polmonite, l’ipercapnia può essere più vantaggio che un problema.

- disfunzione diaframmatica: l’acidosi respiratoria ipercapnica riduce la disfunzione diaframmatica indotta dalla ventilazione (ventilation-induced diaphragmatic dysfunction, VIDD) che si sviluppa durante ventilazione controllata [7]. Per Marco l’ipercapnia potrebbe essere un investimento in vista dell’inizio della fase di svezzamento che potrebbe iniziare (se sarà fortunato) tra qualche giorno.

Alla luce di quanto abbiamo visto, come procedere? Penso che l’unica correzione ragionevole dell’impostazione della ventilazione potrebbe essere forse essere un lieve aumento della frequenza respiratoria, consapevoli che frequenze troppo elevate possono avere di per sè un impatto negativo sul danno polmonare [8,9]. Ed accettare, in queste condizioni, l’ipercapnia che deriva da una buona impostazione della ventilazione. Ricordiamo che l’ipercapnia si associa ad un miglioramento della sopravvivenza anche quando si ventila “male” (con 12 ml/kg di volume corrente)…[10].

Possiamo sintetizzare quanto detto nel seguente modo. Nei pazienti con ARDS:

- l’impostazione della ventilazione meccanica deve essere fatta sulla base dei principi della ventilazione protettiva, che nella loro formulazione più semplice prevedono il volume corrente di 6 ml/kg di peso ideale (o meno se la pressione di plateau arriva a 30 cmH2O) e PEEP (meglio se scelta per ridurre la driving pressure);

- se il risultato di questo è l’ipercapnia dobbiamo distinguere due situazioni:

1) l’ipercapnia è una nemica da combattere: ad esempio nei casi di ipertensione endocranica, scompenso cardiaco destro, shock con necessità di alti dosaggi di farmaci vasoattivi, PaO2 < 55-60 mmHg. In questi casi dobbiamo approfondire lo studio della meccanica respiratoria con la pressione esofagea e considerare precocemente la rimozione extracorporea di CO2 o l’ossigenazione extracorporea. La ventilazione protettiva NON SI TOCCA.

2) l’ipercapnia può divenire un’alleata: tutti i casi in cui l’ipercapnia non produce effetti negativi evidenti (cioè in assenza delle condizioni descritte al punto precedente).

L’ipercapnia ci chiede sempre un ragionamento, prima di accettarla o rifiutarla.

Buon agosto ed un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1] The ARDS Definition Task Force. Acute Respiratory Distress Syndrome. JAMA 2012; 307:2526-33
2] Curley G et al. Bench-to-bedside review: Carbon dioxide.
 Crit Care 2010; 14:220
3] Ijland MM et al. Bench-to-bedside review: Hypercapnic acidosis in lung injury – from ‘permissive’ to ‘therapeutic’. Crit Care 2010; 14:237
4] Natalini G et al. Cardiac index and oxygen delivery during low and high tidal volume ventilation strategies in patients with acute respiratory distress syndrome: a crossover randomized clinical trial. Crit Care 2013, 17:R146
5] Mekontso Dessap A et al. Impact of acute hypercapnia and augmented positive end-expiratory pressure on right ventricle function in severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2009; 35:1850-8
6]  Curley G et al. Can ‘permissive’ hypercapnia modulate the severity of sepsis-induced ALI/ARDS? Crit Care 2011; 15:212
7] Jung B at al. Moderate and prolonged hypercapnic acidosis may protect against ventilator-induced diaphragmatic dysfunction in healthy piglet: an in vivo study. Crit Care 2013, 17:R15
8] Hotchkiss JR et al. Effects of decreased respiratory frequency on Ventilator-induced Lung Injury. Am J Respir Crit Care Med 2000; 161:463–468
9] Vaporidi K et al. Effects of respiratory rate on ventilator-induced lung injury at a constant PaCO2 in a mouse model of normal lung. Crit Care Med 2008; 36:1277-83
10] Kregenow DA et al. Hypercapnic acidosis and mortality in acute lung injury. Crit Care Med 2006; 34:1-7  

UN INTERESSANTE CASO DI INTERAZIONE TRA VENTILAZIONE MECCANICA ED EMODINAMICA Parte 2

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Una volta recuperato il filo guida, il tracheoscopio rigido viene rimosso e posizionato il tubo di piccolo diametro mantenendo le precedenti impostazioni della ventilazione. Nel giro di pochi minuti compare bradicardia progressiva e ipotensione con  desaturazione periferica. Dopo i primi attimi d’interrogativi è stato preso un semplice provvedimento: deconnettere la paziente dal  ventilatore e lasciarla espirare per 30 secondi. Purtroppo non abbiamo documentazione fotografica del ventilatore  prima della deconnessione ma era più o meno come questa:

 

 

 

 

 

Deconnessa dal ventilatore, la paziente ha presentato una rapida risalita della frequenza cardiaca ai valori precedenti insieme alla pressione arteriosa. A quel punto si è ripresa la procedura modificando l’impostazione della ventilazione.

Come spieghiamo quanto successo? La paziente è andata incontro ad iperinflazione dinamica con un progressivo aumento del volume polmonare totale e conseguente risentimento emodinamico. Questo è un quadro molto simile a un grave stato asmatico acuto nel quale è possibile l’insorgenza di arresto cardiaco per grave e irrisolvibile iperinflazione.

Forse sapete che la PEEP “occulta” è stata scoperta da Marini proprio per l’effetto emodinamico che produce: si era accorto che alcuni pazienti, sottoposti a monitoraggio emodinamico, quando deconnessi dal ventilatore per le normali pratiche assistenziali, presentavano un incremento della portata cardiaca. Nel caso della nostra paziente l’interazione tra le impostazioni del ventilatore e le caratteristiche dell’apparato toraco – polmonare ha prodotto iperinflazione responsabile a sua volta di una condizione di bassa portata cardiaca: vediamo di capire gli elementi in gioco.

L’impostazione del ventilatore era di 500 ml di volume corrente per 15 atti/minuto con un rapporto I:E di 1:2 e quindi con un ridotto tempo espiratorio (2,2 secondi) rispetto ad un volume relativamente grande. I limiti d’allarme sulla “Pressione di picco” erano alti tanto che il ventilatore erogava senza problemi il volume corrente impostato. Durante la procedura con il tubo di piccolo diametro si è avuto un progressivo rialzo sia delle pressioni di picco (superate tranquillamente dal ventilatore) sia della pressione di pausa. Il meccanismo è quello descritto nell’immagine qui sotto con l’aggravante che la ventilazione meccanica insuffla inesorabilmente volume nei polmoni oltre qualunque punto d’equilibrio.  Inoltre il tubo piccolo, a causa di un aumento delle resistenze pari alla quarta potenza del raggio, richiede un tempo espiratorio prolungato rispetto ad uno di maggior diametro e questo costituisce fattore aggravante della dinamica respiratoria. Condizioni di rischio per lo sviluppo di tale fenomeno sono la presenza di uno o più fattori quali: tempo espiratorio ridotto, resistenze espiratorie elevate (come negli asmatici e nei BPCO, o per tubi di calibro ridotto), volumi correnti elevati, bassa elastanza toraco – polmonare (per es. enfisema), flow limitation.

Abbiamo visto in un precedente post (http://www.ventilab.org/2013/04/30/ventilazione-meccanica-ed-emodinamica-cosa-fare-e-perche-quando-lipotensione-complica-la-ventilazione-meccanica/) come sia stretta l’interazione tra l’apparato cardiovascolare e polmonare. In particolare l’aumento delle pressioni intratoraciche (in sostanza quella intrapolmonare) è in grado di ridurre la portata cardiaca riducendo il ritorno venoso. Il caso della nostra paziente è assimilabile a quello di un asmatico (http://www.ventilab.org/2010/12/31/ventilazione-meccanica-del-paziente-asmatico-grave/), il cui problema cruciale è la lentezza del flusso espiratorio dovuta all’ostruzione bronchiale: i pazienti iniziano l’inspirazione prima che l’espirazione sia stata completata e così ad ogni nuova inspirazione sempre più volume resta nei polmoni con lo sviluppo d’iperinflazione polmonare e PEEP occulta. Una ventilazione meccanica inappropriata può rapidamente peggiorare l’iperinflazione, indurre danno polmonare, pneumotorace o collasso cardiovascolare, aumentando quindi la morbilità e la mortalità di questi pazienti.

In pratica cosa possiamo fare in casi come questi?

Ventiliamo in modalità “volume controllato” inserendo una pausa inspiratoria di durata adeguata (15 – 20%). In questo modo possiamo osservare attentamente la pressione di pausa (assimilabile al plateau) per individuare precocemente l’insorgenza d’iperinflazione: il volume intrappolato viene svelato dall’aumento della pressione statica nelle vie aeree. Rispetto all’inizio della procedura aumenteranno le pressioni di picco e di pausa.

All’inizio della ventilazione meccanica o subito dopo il posizionamento del tubo di piccolo diametro la possibile inflazione non si è ancora prodotta; dobbiamo identificare a quale pressione di picco, dopo il posizionamento del tubo di piccolo diametro (o all’inizio della ventilazione meccanica nell’asmatico), si ottiene il volume corrente desiderato e quali sono i valori di pressione statica. In questo modo possiamo settare i limiti d’allarme della “Pressione di picco” che ci permettano di erogare il volume corrente e nel caso questi limiti vengano superati disporre di un allarme d’iperinflazione. Questa, infatti, produrrà il rialzo della pressione statica (di pausa) e conseguentemente di picco: il ventilatore ci avviserà e potremo intervenire tempestivamente per prevenire l’aggravamento del fenomeno.

E’ inoltre corretto impostare i parametri della ventilazione con gli obiettivi di un piccolo volume corrente (6 ml/Kg), un adeguato tempo espiratorio intervenendo sia sulla frequenza (10 – 12 atti/minuto, forse l’intervento più efficace) sia sul tempo espiratorio (I:E = 1:3 o 1:4) sapendo che questo comporterà un aumento delle pressioni di picco (quella pericolosa è il plateau!); PEEP ridotta al minimo indispensabile fino a ZEEP.

 

Post Scriptum – Il caso si è presentato nel nostro reparto alcune settimane fa e non è stato volutamente ricercato. Per questo motivo durante la procedura non è stata raccolta documentazione fotografica: tuttavia la prima fotografia è della paziente in oggetto ed è stata scattata in quanto reclutata in uno studio clinico e ben si è prestata allo scopo. La seconda fotografia è la prima, ritoccata per riprodurre quanto osservato ma non documentato iconograficamente per la rapidità con si sono succeduti gli eventi.

Bibliografia

1. Ciaglia P, Firsching R, Syniec C. Elective percutaneous dilatational tracheostomy. A new simple bedside procedure preliminary report. Chest 1985; 87: 715–9.

2. Fantoni A, Ripamonti D. A non-derivative, non-surgical tracheostomy: the translaryngeal method. Intensive Care Med 1997; 23: 386–92.

3. Pepe PE, Marini JJ. Occult positive end expiratory pressure in mechanically ventilated patients with airflow obstruction: the auto PEEP effect. Am Rev Resp Dis 1982;123:166-70.

4. Marini JJ, Culver BII, Btler J. Mechanical effect of lung distention with positive pressure on cardiac function. Am Rev Respir Dis. 1981 Oct;124(4):382-6.

L’infermiere ed il monitoraggio grafico della ventilazione meccanica: perchè è indispensabile, come imparare.

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florenceMolti infermieri seguono assiduamente ventilab (per inciso, vi chiedo la cortesia di dedicare 3 minuti alla compilazione del questionario sugli Aspetti relazionali nella donazione di organi che trovate all’inizio della pagina). E’ un segno tangibile dell’interesse e della voglia di migliorare le conoscenze sulla ventilazione meccanica ed il suo monitoraggio, un argomento tradizionalmente ostico in cui serve qualcuno che ti dà una mano.

Ecco la buona notizia per gli infermieri: finalmente venerdì 18 ottobre 2013 si terrà a Brescia il “Corso base di ventilazione meccanica ed interpretazione del monitoraggio grafico” (clicca qui per vedere la locandina). E’ un corso per infermieri fatto da infermieri (ci sarò comunque anche io a dare, se necessario, il mio contributo), molto curato sia nella parte teorica che in quella pratica, con obiettivi didattici chiari che portarenno, già alla fine della giornata, all’acquisizione di nuove competenze. Nelle edizioni già svolte a livello locale i riscontri sono stati ottimi sia in termini di gradimento che di apprendimento.

Il ”Corso base di ventilazione meccanica ed interpretazione del monitoraggio grafico” è a numero chiuso, dura tutta la giornata ed ha un costo simbolico di 35 euro (pranzo incluso). Per iscriverti clicca qui, cerca nell’elenco degli eventi “Corso base di ventilazione meccanica ed interpretazione del monitoraggio grafico“ e procedi all’iscrizione online (tutti i dettagli sono comunque specificati nella locandina).

Ho lasciato alla fine la presentazione dei docenti, non perchè meno importante ma perchè il post proseguirà con un contributo interamente scritto da loro. I due docenti sono Cristian Fusi ed Enrico Bulleri, due bravissimi infermieri che da anni lavorano con me (e con l’altrettanto meraviglioso gruppo di infermieri e medici della Terapia Intensiva di Fondazione Poliambulanza) e che si sono appassionati di curve e ventilatori fin dall’inizio della loro attività. Non spendo altre parole, la prova dei fatti dirà il resto.

Ecco il post che Enrico e Cristian hanno preparato per noi.

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Il signor Alberto, di anni 73, è stato ricoverato presso il nostro reparto con una diagnosi di insufficienza respiratoria. L’anamnesi patologica remota riporta lieve insufficienza renale, diabete mellito tipo 2 ed ipertensione arteriosa.

Il decorso in terapia intensiva è stato caratterizzato da un quadro di grave disfunzione polmonare conseguente a polmonite comunitaria. Dopo tracheotomia in ottava giornata ed in risposta a miglioramento progressivo della patologia di ammissione, comincia periodi di respiro spontaneo in t-tube dalla decima giornata.

Dopo uno di questi periodi di circa due ore, l’infermiere che segue Alberto riscontra tachipnea (frequenza respiratoria 32/min) e dispnea, desaturazione (SpO2 86%), tachicardia 131/min e moderata ipertensione arteriosa.

Si esegue EGA arterioso e si contatta il medico di guardia telefonicamente, perchè impegnato in Pronto Soccorso per una consulenza, che decide di ricollegare il paziente al ventilatore in modalità pressione di supporto (PSV), confermando l’impostazione del ventilatore precedente il periodo di respirazione spontanea (PEEP 5 cmH2O e PS 5 cmH2O).

Vediamo nella figura 1 come si presenta il monitoraggio grafico (in giallo la pressione delle vie aeree ed in verde il flusso):

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FIGURA 1

L’obiettivo di questo intervento dovrebbe essere mettere a riposo la muscolatura respiratoria che mostrava segni di distress e “ricaricare le pile” per un nuovo ciclo di respiro spontaneo.

Siamo sicuri che il setting della ventilazione in precedenza impostato ci consenta di raggiungere quest’obiettivo? A nostro parere no, abbiamo diversi segni che ci permettono di capire che il nostro paziente stia ancora faticando.

Diamo per scontato che i lettori di ventilab conoscano “il metodo” dell’A-B-C-D-E-F, in caso contrario invitiamo a dargli una “sbirciatina”, (post 13/8/10; 20/8/10; 29/8/10).

Come primo segno notiamo che la frequenza respiratoria è ancora elevata: 32 atti/min in respiro spontaneo e 30 atti/min dopo 10 minuti di ventilazione.

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FIGURA 2

Nella figura 1, guardando la curva flusso-tempo (in verde), distinguiamo la fase inspiratoria ed espiratoria: sopra la linea dello zero siamo in inspirazione e di conseguenza al di sotto dello zero abbiamo la curva di flusso espiratorio. Ricordiamo che il flusso inspiratorio di un paziente a riposo in PSV si presenta con un picco di flusso iniziale a cui segue un progressivo decadimento (Fig. 2).
Nel nostro caso abbiamo invece un flusso inspiratorio sinusoidale, indice d’intensa attività della muscolatura respiratoria.

Inoltre, osservando il setting della ventilazione (PS 5 cmH2O e PEEP 5 cmH2O) ci aspettiamo che il ventilatore mantenga durante tutta la fase inspiratoria una pressione costante di 10 cmH2O, ma sulla nostra curva pressione-tempo questo non accade (figura 3) perché il paziente sottrae aria più velocemente di quanto il ventilatore non riesca a dargliene, impedendogli così di pressurizzare l’apparato respiratorio fin dall’inizio .

FIGURA 3

FIGURA 3: differenza di pressione tra inizio e fine inspirazione

FIGURA 4

FIGURA 4: differenza tra la curva attesa e quella riscontrata

La linea rossa tratteggiata nella figura 4 rappresenta l’andamento della pressione attesa (o meglio ciò che il ventilatore vorrebbe fare), ma l’attività del paziente “svuota” questa onda quadra. Il lavoro inspiratorio del paziente cessa solo alla fine, quando il polmone è ormai pieno d’aria, permettendo al ventilatore di raggiungere il valore di pressione inspiratoria impostato (10 cmH2O).

Tantissime altre informazioni possono essere ricavate da queste curve, ma basta anche questa semplice analisi del monitoraggio grafico per individuare un problema. L’infermiere che teneva monitorato il paziente ha saputo interpretare le curve ed avvisare tempestivamente il medico, che ha provveduto ad aumentare la pressione di supporto adeguandola all’esigenza del paziente, nel nostro caso da 5 a 10 cmH2O, favorendo il riposo della muscolatura respiratoria e permettendo così, dopo poco tempo, un nuovo ciclo di respiro spontaneo.

Nella figura 5 vediamo come si presenta il monitoraggio grafico dopo che l’aumento del PS ha permesso di raggiungere l’obiettivo e l’infermiere, è stato ben attento, poi, a controllare eventuale presenza di autociclaggio (post 27/1/13).

FIGURA 5

FIGURA 5 

Nella nostra esperienza lavorativa il monitoraggio grafico è stato uno potente strumento per capire le necessità dei pazienti, valutare l’efficacia di un trattamento, risolvere diversi problemi in autonomia (quando di nostra competenza) e ridurre in diverse situazioni il tempo d’intervento medico con segnalazioni tempestive e qualificate.

 

Pressione venosa centrale ed attività respiratoria: un semplice accorgimento per la rilevazione corretta.

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Labyrinth-Security-LockQuale è il significato clinico della pressione venosa centrale? A cosa ci serve nella pratica clinica? Per molti le risposte a queste domande sono semplici: è una stima dello stato volemico e ci serve per guidare la somministrazione di fluidi. Questa visione è sostenuta anche da importanti linee guida (vedi ad esempio quella della Surviving Sepsis Campaign), peccato non sia supportata da alcuna evidenza scientifica…. La pressione venosa centrale è il punto di congiunzione tra circolazione venosa e pompa cardiaca destra. Nasconde informazioni utili nei suoi dettagli ed insidie nel suo valore numerico (soprattutto se cerchiamo dei valori soglia). Potremmo parlare a lungo del significato fisiologico e clinico della pressione venosa centrale, ma sarebbe un può fuori tema per ventilab, che è monotematico sull’insufficienza respiratoria e la ventilazione meccanica. Se però ti interessa che si vada “fuori tema” nei prossimi post parlando ancora di pressione venosa centrale, fammelo sapere.

Premesso questo, la prima difficoltà nell’uso della pressione venosa centrale è la corretta rilevazione. Quale punto di riferimento? Angolo sternale o linea ascellare media? La pressione venosa centrale è un’onda complessa. In quale punto leggere il valore? Il valore medio dell’onda, o in qualche punto tra le onde “a”, “c”, “v”? Quando la traccia della pressione venosa centrale oscilla durante la ventilazione, dove rilevarne il valore? Purtroppo il numero che vediamo sui monitor è spesso acritico ed ha bisogno di un’interpretazione competente. Teniamo conto che gli errori di lettura della pressione venosa centrale possono avere una notevole rilevanza: la pressione venosa centrale ha un range di presunti valori “normali” molto ristretto (tra 1 e 7 mmHg), ed un errore di pochi mmHg nella lettura può portare a conclusioni completamente sbagliate.

Oggi ci occuperemo esclusivamente dell’impatto della attività respiratoria sulla rilevazione della pressione venosa centrale.

La misurazione della pressione venosa centrale durante l’attività respiratoria.

Sappiamo che la rilevazione delle pressioni vascolari intratoraciche, e quindi  anche della pressione venosa centrale, dovrebbe essere eseguita a fine espirazione. In alcuni casi è molto semplice, perchè non esistono rilevanti variazioni di pressione venosa centrale durante la respirazione, come ad esempio nella figura 1.

Figura 1.

Figura 1.

Ma in altri casi l’effetto della respirazione può indurre il monitoraggio a fornirci il numero “sbagliato”: in questo caso siamo noi a dovere correggere con intelligenza la lettura del monitor, come nell’esempio in figura 2.

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Figura 2

Il monitor ci dice che il paziente ha 7 mmHg di pressione venosa centrale, ma in effetti questo non è vero. Vediamo l’onda della pressione venosa centrale che oscilla tra plateau di 12-13 mmHg e valli di 0-2 mmHg. Quali sono i valori di fine espirazione? In questo caso sono i plateau di 12-13 mmHg perchè il paziente è in respiro spontaneo: le pressioni all’interno del torace (anche quelle vascolari!) si riducono durante l’inspirazione e ritornano al loro livello basale (più elevato) durante l’espirazione. Quindi in questo caso specifico dovremo leggere 12-13 mmHg di pressione venosa centrale e non 7 mmHg come ci dice il monitor. Dobbiamo precisare che possiamo aiutare alcuni monitor a fare una lettura migliore andando a specificare nel menu se il paziente è in respiro spontaneo o in ventilazione controllata. Purtroppo questo non risolve i problemi in caso di ventilazione assistita (come quasi tutti i pazienti in Terapia Intensiva) o di espirazione attiva.

Quali implicazioni pratiche? Notevoli per gli amanti di linee guida e bundles: ad esempio la già citata Surviving Sepsis Campaign ci dice di somministrare fluidi per ottenere una pressione venosa centrale di 8-12 mmHg. Quindi se crediamo al valore che ci dà il monitor dovremmo somministrare ancora fluidi, se invece leggiamo accuratamente la pressione venosa centrale  dovremmo iniziare l’infusione di norepinefrina in caso di ipotensione .

E’ diverso il caso nei pazienti in ventilazione meccanica controllata, come nell’esempio che possiamo vedere di seguito.

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Figura 3

In questo caso l’onda della pressione venosa centrale raggiunge il proprio massimo durante l’inspirazione, quando tutte le pressioni intratoraciche aumentano per effetto dell’insufflazione meccanica in assenza di depressione pleurica secondaria all’utilizzo dei muscoli inspiratori. Quindi, al contrario del caso precedente, la pressione venosa centrale a fine espirazione coincide con il valore più basso. In questo caso sarebbe 6-7 mmHg, il monitor ci ha azzeccato (anche perchè era stato correttamente aiutato inserendo l’informazione che il paziente è in ventilazione controllata).

Ora vediamo un altro esempio un po’ più complesso di un paziente con ventilazione assistita:

Figura 4

Figura 4

In questo caso abbiamo un’ampia oscillazione della pressione venosa centrale, da valori negativi ad olte 30 mmHg, con la lettura automatica che ci dà il valore di 13 mmHg. Durante ventilazione assistita l’attività respiratoria del paziente è complessa: c’è una iniziale fase inspiratoria che porta al triggeraggio dell’inspirazione meccanica, quindi una fase di assistenza a pressione positiva, in cui la pressione pleurica può sia continua a diminuire che ad aumentare, ed infine l’espirazione. Un bel labirinto in cui doversi orientare. Ci può essere d’aiuto un semplice accorgimento: mantenere una mano sull’addome del paziente durante l’osservazione della curva di pressione venosa centrale sul monitor. Seguendo con la mano i movimenti dell’addome durante la ventilazione, potremo facilmente individuare inizio e fine di inspirazione ed espirazione senza staccare gli occhi dal monitor e capire in tempo reale quando ci troviamo a fine espirazione. Con la mano sull’addome possiamo facilmente percepire anche un espirio forzato attraverso la rilevazione della contrazione dei muscoli addominali durante l’espirazione (prova, vedrai che è molto semplice). E’ importante, perchè la fine espirazione che dobbiamo trovare è evidentemente una fine espirazione passiva e non attiva.

Rivediamo la figura  4 mentre tocchiamo l’addome del paziente e contemporaneamente guardiamo il monitor:

Figura 4 bis

Figura 4 bis

In questo caso ci rendiamo conto che i picchi di pressione venosa centrale corrispondono alla fase espiratoria, ma che questa è molto forzata e che quindi la pressione intratoracica aumenta per effetto della contrazione attiva ed intensa dei muscoli espiratori. Ci rendiamo conto che l’espirazione forzata è preceduta da un breve plateau, che è allo stesso livello dell’inizio dell’inspirazione. Questo può essere il livello di pressione venosa centrale in assenza di attività muscolare respiratoria (sia inspiratoria che espiratoria) e lo abbiamo identificato con la linea tratteggiata rossa a circa 5 mmHg, un valore ben diverso (e con potenziali implicazioni pratiche antitetiche) rispetto ai 13 mmHg rilevati dal monitor.

Prima di arrivare alle conclusioni, prova a decidere tu quale è il valore di pressione venosa centrale (approssimativamente) corretto in questo paziente (le linee bianche tratteggiate orizzontali sono a 7.5 mmHg di distanza tra loro):

Figura 5

Figura 5

Trascurando ogni considerazione sull’utilizzo clinico della pressione venosa centrale, possiamo riassumere quando abbiamo visto in 3 punti:

1) il valore della pressione venosa centrale non sempre coincide con quello rilevato dal monitoraggio;

2) il valore corretto di pressione venosa centrale dovrebbe essere rilevato a fine espirazione passiva (o comunque in assenza di attività dei muscoli inspiratori ed espiratori)

3) possiamo facilmente identificare il punto giusto di rilevazione della pressione venosa centrale guardando la traccia sul monitor e contemporaneamente seguendo la respirazione del paziente con una mano sul suo addome.

Un sorriso a tutti.

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